Il patto del silenzio – Playground

Il patto del silenzio – Playground

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Con il suo primo lungometraggio la belga Laura Wandel si muove nel solco dei connazionali fratelli Dardenne. Per raccontare una storia di bullismo tra minori vista attraverso gli occhi di una bimba, Il patto del silenzio – Playground sceglie uno sguardo interno al mondo scolastico, freddo e impietoso, direzionato da una macchina da presa mobilissima. Un film maturo e finanche disagevole, capace di parlare senza eufemismi delle pulsioni violente dei più piccoli.

Racconto crudele dell’infanzia

Nora, al suo primo anno di scuola, inizia a frequentare lo stesso istituto di suo fratello maggiore Abel. Quando assiste a un atto di bullismo nei confronti di Abel da parte di altri bambini. Nora, scioccata, cerca di proteggerlo avvertendo il padre e le insegnanti. Ma Abel la costringe a rimanere in silenzio. Intrappolata in un difficile conflitto interiore, Nora dovrà cercare con difficoltà di trovare il suo posto nel nuovo ambiente, divisa tra il mondo dei bambini e quello degli adulti. [sinossi]

Il patto del silenzio – Playground: ecco un film che sarebbe potuto cadere nelle trappole del già visto e che invece riesce abilmente a smarcarsi dai luoghi comuni, contenutistici e formali. Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2021 l’esordio di Laura Wandel ha tutto per essere la tipica opera da dibattito, dato dall’unione tra un tema sociale forte (il bullismo in età pre-adolescenziale) e un’estetica realista tipicamente contemporanea mutuata ormai da vent’anni a questa parte sulla lezione dei Dardenne, un modello stilistico dal quale evidentemente una giovane regista belga non può prescindere (naturalismo recitativo, macchina a spalla onnipresente, pedinamento del personaggio principale). Eppure Wandel lavora su uno spartito così limitato senza scendere ad alcun compromesso con lo spettatore che si trova davanti a un film sull’infanzia sgradevole, privo di scappatoie liriche o sentimentali. In tal senso colpisce già l’incipit in cui Nora, la bambina di sette anni che è il fulcro assoluto del film, deve separarsi dal fratello maggiore e dal padre per affrontare autonomamente il suo primo giorno nella scuola di Trois-Ponts, un piccolo centro della Vallonia. I saluti e gli abbracci nel cortile della ricreazione (il playground che nel titolo originale è semplicemente Un monde, “un mondo”) sembrano infatti quelli di chi sta per partire in battaglia più che trascorrere semplicemente qualche ora di lezione ma quando, sempre in piano-sequenza, la macchina da presa entra con la bambina nell’edificio, appare chiaro l’intento della regista-sceneggiatrice, quello di descrivere la scuola come un terreno di scontro, un microcosmo di rapporti di forza non dissimile in nulla dalla realtà degli adulti. Anzi, se possibile con un di più di indeterminazione dato che i comportamenti di questi ragazzi sono puramente pulsionali e il film si guarda bene dall’inserire elementi chiarificatori di carattere psicologico o sociale che possano spiegarli.

La cinepresa segue costantemente, senza mai abbandonarla, Nora. È una bambina insicura e problematica che si ritrova testimone dei soprusi perpetrati contro suo fratello Abel da parte di alcuni coetanei. Nora funziona per lo spettatore come una specie di Caronte tra i corridoi, le aule e, soprattutto, il cortile, uno spazio che si configura come zona franca data la sostanziale assenza di insegnanti e personale scolastico, figure deboli, grigie, prive della necessaria autorità e capacità educativa. Un primo esito rilevante il film lo raggiunge proprio nella messa in scena di questo peregrinare. La macchina da presa tallona la bambina, a volte di spalle, a volte facendo ricorso alla semi-soggettiva ma senza mai dare tregua allargando il campo visivo magari con un’inquadratura più ampia o un totale. Questo insistito realismo viene però sbilanciato dal ricorso sistematico al fuori-fuoco per cui spesso vediamo nitidamente solo Nora ma abbiamo una visione confusa e indistinta degli ambienti e degli altri bambini, di cui sentiamo soprattutto le grida e i richiami, che sono l’unico costante leit-motiv sonoro. Il patto del silenzio – Playground è così a suo modo un film immersivo, il cui procedimento stilistico, meno radicale ma non così diverso in fondo da un film come Il figlio di Saul di Nemes o da certe soluzioni del Gus Van Sant di Elephant, ottiene di trasfigurare lo spazio, di spostare l’asse della rappresentazione su un piano più astratto e quindi di esprimere visivamente l’oppressione interiore della protagonista. È nel cortile che i ruoli del forte e del debole si configurano davvero. Fratello e sorella in questo senso vivono esperienze analoghe. Abel è dapprima accettato dai compagni e partecipa ai loro crudeli riti d’iniziazione, come picchiare i nuovi studenti per marcare il territorio, ma si ritrova nella situazione opposta quando Nora tenta d’intromettersi nelle sue dinamiche relazionali. Introverso e meno dotato fisicamente diventa così, da carnefice, vittima sacrificale e in maniera analoga la sorella, che inizialmente sembra riuscire a costruire un labile rapporto di amicizia con altre due bambine, si ritrova ben presto esclusa e bullizzata anch’essa.

Il rapporto stretto che li lega (e in cui talvolta riesce a introdursi il padre, anche lui inadeguato a capire profondamente la psicologia dei ragazzi) è ciò che muove l’azione nel film perché è una relazione che in quello spazio sociale non può essere esclusiva bensì deve essere continuamente negoziata con la logica del branco. Gli esiti sono imprevedibili dal momento che come dice Nora con sorprendente distacco, “quando aiuti gli altri le cose peggiorano”, e proprio le sue intenzioni salvifiche causano l’umiliazione peggiore per il ragazzo, gettato in un bidone della spazzatura. Tutto il complesso di relazioni del film rimanda ad una dimensione di lotta ferina, fisica, che trova una sua corrispondenza nelle attività scolastiche. Wandel si concentra sulle prove di ginnastica e gli esercizi di nuoto assai più che sulle lezioni in aula, di cui vediamo solo brevi momenti, come a voler inscrivere l’apprendistato alla vita di questi ragazzini nel perimetro della realtà bruta, in cui le mediazioni culturali e linguistiche appaiono inadeguate. Un pessimismo che non si scioglie davvero nemmeno con la catarsi finale, con quell’abbraccio tra fratello e sorella che suggella sì una ritrovata unione e magari anche una tragedia evitata (Nora interviene per dissuadere Abel dal tentativo di soffocare un ragazzino con un sacchetto di plastica) ma pur sempre nel momento in cui entrambi hanno imparato a esercitare a proprio vantaggio la violenza che prima subivano. Il sospetto è che possa celarsi un che di programmatico o di manicheo in un film che, con scelta inequivocabile, taglia spesso a metà le figure adulte sottolineando così la loro irrilevanza (anche madame Agnes, l’unica insegnante che mostra un po’ di attenzione per Nora, è in fondo pavida e poco empatica) ma è un neo che non intacca più di tanto la dimensione sociologica allarmante che Il patto del silenzio – Playground ritrae con lucidità e assenza di retorica.

Info
Il patto del silenzio – Playground, il trailer.

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