Kubi

Con l’ideogramma 首, vale a dire Kubi, si fa riferimento al collo, e di teste ne rotolano davvero tantissime nel nuovo film di Takeshi Kitano, nel quale si raccontano i fatti del cosiddetto “Incidente di Honnō-ji” accaduto nel 1582 e che cambiò le sorti del Giappone feudale. Attraverso uno sguardo non privo del sarcasmo che lo contraddistingue Kitano rilegge il jidaigeki da varie prospettive, mescolando l’alto e il basso in modo continuo e rigenerante. In Cannes Première.

Teste rotolanti

Il Giappone sul finire del XVI secolo è dilaniato da lotte intestine e da conflitti tra i vari governatori delle province. Tra di loro il più potente è Nobunaga Oda, determinato a guidare la nazione e in guerra con diversi clan. Uno dei suoi generali di maggior rilievo, Murashige Araki, si ribella al potere di Oda e scompare nel nulla. A questo punto Nobunaga raduna gli altri vassalli a lui fedeli, tra cui Mitsuhide e Hideyoshi, e ordina la cattura del fuggitivo, promettendo che chiunque porti a termine l’impresa sarà nominato suo successore. Tra tradimenti e alleanze di convenienza si ritroveranno tutti al tempio di Honnō-ji, dove si compirà il loro destino. [sinossi]

Sui titoli di testa del nuovo film di Takeshi Kitano, il diciannovesimo in trentaquattro anni di carriera, l’ideogramma 首, leggibile come forma fonetica Kubi, viene tranciato di netto, con la parte superiore del segno che cade. La traduzione letterale di Kubi è “collo”, e il film è letteralmente disseminato di teste tagliate, divelte dal corpo con un rapido e preciso colpo di katana. Il film inizia addirittura su un collo privato della testa e riverso in un fiume, con tanto di granchio che vi si muove all’interno, zampettando nella carne sanguinante. Kitano torna alla regia a sei anni di distanza da Outrage Coda, che aveva messo fine alla trilogia dedicata al gangster Otomo, e torna sulla Croisette a tredici anni dal primo Outrage: per l’attore e regista giapponese si tratta della quinta volta in assoluto al festival francese dopo Sonatine, Kids Return, L’estate di Kikujiro, e il già citato Outrage. Se gli ultimi due film erano stati presentati nella corsa per la Palma d’Oro, questo nuovo parto creativo è stato inserito nella selezione di Cannes Première, insieme ad altri affermati registi quali Víctor Erice – con annessa polemica – o Lisandro Alonso. Va detto che se Kubi si fosse trovato in competizione avrebbe con ogni probabilità messo in crisi buona parte degli accreditati stampa (una consistente percentuale di questa categoria segue esclusivamente i film selezionati in concorso), producendo sguardi persi nel vuoto al termine della proiezione. Difficile infatti avvicinarsi a questo jidaigeki se non si ha qualche nozione pur minima di storia del Giappone. Quanti degli spettatori – ma anche dei membri di una eventuale giuria, a voler essere precisi – hanno nozione di cosa fu e rappresentò il cosiddetto “Incidente di Honnō-ji”? E quanti, vedendo di sfuggita sullo schermo il personaggio di Ieyasu Tokugawa (Kitano ricorre alla tecnica del sottopancia quando entrano per la prima volta in scena tutte le figure storiche che mette in scena, in numero effettivamente considerevole), lo ricollegano a quanto successe nel 1600, diciotto anni dopo la fine dei fatti narrati nel film, a Sekigahara?

Insomma, se poca dimestichezza si ha con le figure dei daimyō, con le regole dei samurai, con la situazione storico-politica del Giappone feudale, e via discorrendo, il rischio concreto è di perdere la bussola di ciò che sta capitando sullo schermo dopo pochi minuti, e non ritrovarla più. Un peccato perché in realtà Kubi non è solo l’ambiziosa ricostruzione storica di un passaggio cruciale nella storia dell’arcipelago, quando andò a declinare l’epoca Sengoku, ma anche e soprattutto la dimostrazione di come Kitano sia un regista sempre in grado di ragionare sulla macchina-cinema, sulle sue regole e su come aggirarle. Il regista parte da un proprio libro, pubblicato nel 2019 e di un certo successo in patria, e da lì articola con dovizia di particolare il complesso intrico di alleanze e tradimenti che si venne a creare quando Araki Murashige voltò le spalle al suo signore Nobunaga Oda – che ambiva al trono principale della nazione – e scomparve nel nulla. Kitano, che capitana uno stuolo di attori impressionante (praticamente il gotha di Tokyo e dintorni), tiene per sé il ruolo di Hideyoshi Toyotomi, considerato uno dei tre grandi unificatori del Giappone dopo il lungo periodo di lotte intestine: nel calarsi nella maschera di questa figura centrale Kitano non rinuncia al suo abituale personaggio, sarcastico, spaccone, dedito senza alcun tipo di rimorso a una violenza quasi parossistica. È il primo dei molti segni di dissacrazione della Storia che il film dissemina di fronte agli occhi degli spettatori. Il suo approccio al genere, come già vent’anni fa in Zatoichi, non possiede nulla dell’epica classica, ma si tratta semmai di una sarabanda grottesca, dove anche gli apparenti protagonisti (si tratta a tutti gli effetti di un’opera corale) possono uscire di scena, perdendo la testa, nel giro di una battuta, in un frangente. Come già si enunciava nel miikiano 13 assassini anche Kitano trasforma la sua nuova creatura in un massacro totale. Massacro fisico, ovviamente, ma anche cinematografico, distruzione sistemica di ogni regola predetta, di ogni logica decisa a tavolino, di ogni prassi.

Così Kubi diventa anche inevitabilmente una vitale riflessione sul jidaigeki e sui suoi innumerevoli sensi. Una riflessione che Kitano affronta senza rinunciare ai vagheggiamenti comici degli esordi che per paradosso accentuano ulteriormente l’esplosione di brutalità: così Kubi contiene al proprio interno la rappresentazione degli ultimi di Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre e I sette samurai di Akira Kurosawa – regista che torna come suggestione anche per Kagemusha e lo shakespeariano Ran – l’amore omosessuale di Tabù – Gohatto di Nagisa Ōshima (in cui Kitano era splendido interprete), il tragico senso del dovere di Harakiri di Masaki Kobayashi, la furia belluina del già citato 13 assassini, l’ineluttabilità del destino de I fedeli seguaci dell’epoca Genroku di Kenji Mizoguchi. Questo solo per portare alcuni esempi: Kitano torna all’idea della confusione, del caos controllato – solo da lui – e lo fa con un’opera mastodontica, appassionante, che testimonia l’assoluta giovinezza del suo sguardo, quel non volersi mai accomodare nel “gruppo”, non voler essere prono nei confronti di un sistema che pure ha frequentato e frequenta. Il gesto artistico di Kitano è tagliante come quella katana che recide teste a profusione, in una collezione così insensata che Hideyoshi nel finale può permettersi di urlare la più lacerante bestemmia/verità “Se so che è morto che cosa me ne frega di una testa?”. Pochi sono i cineasti a livello mondiali eretici quanto Takeshi Kitano. Ancor meno quelli che possiedono la totale libertà della follia, e sanno come gestirla.

Info
Kubi sul sito del Festival di Cannes.

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