L’Été dernier

L’Été dernier

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L’Été dernier è l’adattamento francese che Catherine Breillat ha desunto dal film danese del 2019 Dronningen di May el-Toukhy; la regista è riuscita però a fare completamente sua questa storia di relazione quasi incestuosa tra una donna di mezza età e un adolescente. Nel discorso sull’autodeterminazione sessuale, e sulla negazione del ruolo preordinato della donna, si respira un’aria d’altri tempi, decisamente lontana – e oppositiva – alla visione odierna.

La diseducazione sentimentale

Anne è un’avvocata che si occupa di perorare le cause dei minori abusati. Sposata da anni con Pierre, CEO di un’importante azienda, ha adottato con lui due bimbe di origine asiatica. Un giorno piomba in casa loro Théo, diciassettenne figlio di prime nozze di Pierre, che ha un pessimo rapporto con il padre e con la scuola. Il ragazzo, indisponente e sfrontato, esaspera Anne ma allo stesso tempo risveglia in lei un desiderio erotico. [sinossi]

In un passaggio de L’Été dernier Anne, avvocata di successo che perora le cause dei minori abusati, parla con il figliastro Théo (che il marito di Anne ha avuto da un precedente matrimonio, senza vederlo crescere) con il quale ha intessuto una relazione, della differenza nel rapporto con il sesso tra la sua generazione e quella dei suoi genitori: mentre gli ipotetici “nonni” di Théo hanno abbracciato in pieno l’epoca della rivoluzione sessuale e della liberazione dei costumi, Anne è cresciuta nel cuore di quella che è divenuta tristemente nota come “generazione AIDS”, dove il sesso diventava un pericolo, un rischio ben più grande di quello di restare incinta – anche se è proprio a causa di un aborto in giovane età che Anne non può più avere figli, e con il marito Pierre ha adottato due deliziose bimbe di origine asiatica. Per questo, sottolinea Anne al ragazzo, c’è stata una profonda devoluzione dei rapporti, lasciando intendere in qualche misura che tale deragliamento sia poi proseguito anche nelle generazioni successive, in una sorta di slavina nel rapporto con il proprio corpo fisico e sociale che non pare arrestarsi in alcuna maniera. Prendendo spunto da un film danese del 2019, Dronningen di May el-Toukhy conosciuto a livello internazionale come Queen of Hearts, Catherine Breillat torna sulle scene a dieci anni di distanza da Abus de faiblesse e si inserisce nel dibattito collettivo da una posizione peculiare, per niente prona al pensiero dominante. Nella storia di Anne, che si lascia sedurre – e seduce – il figlio minorenne di suo marito, si può leggere in filigrana un pesante j’accuse nei confronti di una contemporaneità che ha completamente abbandonato la dialettica, la complessità, e dunque guarda con sospetto se non con aperta ostilità qualsiasi comportamento possa essere ricondotto nella sfera dell’ambiguo.

Desidera ancora, al contrario, lo sguardo di Breillat, pur sembrando muoversi a prima vista nei territori abbastanza consoni del dramma borghese d’oltralpe, dove la classe più agiata – la villa in cui vivono i coniugi Pierre e Anne la dice lunga sul loro status economico-sociale, anche se l’uomo lamenta delle difficoltà sul luogo di lavoro che sono d’altra parte il grimaldello che scardina la solidità familiare, spingendo Pierre in continue trasferte che lasciano Anne e Théo soli con le due bambine – si ritrova a discettare di questioni amorose, seppellendo scheletri nell’armadio. Breillat solletica quell’immaginario, e in parte lo riproduce anche in modo fedele (la festa di compleanno in giardino della figlia più piccola, la serata con gli amici intellettuali che parlano di politica, letteratura, e arte, e via discorrendo), ma in realtà produce uno scarto continuo che di nuovo esce dalla sfera del consono per spingersi in sentieri selvaggi, territori dove può avvenire ciò che può essere considerato ai limiti della liceità morale: era così, lanciando un occhio alla cinquantennale carriera della regista, già ai tempi di Un vrai jeune fille, 36 Fillette, À ma sœur !, Une vieille maîtresse. Ed è interessante, in realtà determinante, che il personaggio di Anne non sia una casalinga insoddisfatta, borghese che deve trovare nella novità licenziosa qualcosa che compensi il vuoto in cui si è venuta a trovare, ma bensì una donna in carriera. Di più, una donna che per lavoro tutela quell’infanzia e adolescenza abusata da un potere “adulto” che può dominare senza che la vittima se ne renda neanche conto: non è casuale che a lato del racconto principale la regista mostri l’evoluzione di una delle cause trattate dall’avvocata, e che ha per protagonista una sedicenne che evidentemente ha un rapporto incestuoso – o comunque non sano – con il padre, cui per sua stessa scelta è stata affidata dopo il divorzio dei genitori.

La regia di Breillat si fa tattile, materiale, in grado di cogliere sempre le sfumature di un rapporto che dal non detto evolve nel non dicibile, eppur mostrabile. Il cinema può entrare in quelle zone d’ombra che il buonsenso borghese pretende rimangano nascoste, celate: Pierre può abbracciare sotto le coltri la moglie tacitandola dal parlare perché probabilmente non c’è bisogno di esplicare ciò che già si sa, ma questa pruderie borghese non appartiene al cinema, che invece apre la luce della camera su un cunnilingus, o su un rapporto nella rimessa, mentre un nugolo di bambini con annessi genitori sta festeggiando in giardino. Il cinema, prodotto della e dalla borghesia, è l’arma ideale per minarne i miti, le certezze, la prassi sociale. Così se lo spettatore tutto può sapere, e tutto può vedere del progressivo avvicinamento del desiderio tra Anne e Théo, nel momento in cui quest’ultimo in puro slancio adolescenziale afferma la verità al padre ad Anne non resta che mentire spudoratamente, negando con forza che alcunché sia mai avvenuto fino a minacciare di profonde ritorsioni proprio il ragazzo, che non comprende e non può comprendere – lui che è di un’altra generazione, o forse semplicemente non abbastanza ha vissuto – il comportamento della donna di cui si è innamorato. Per quanto ciò possa apparire a prima vista non è l’intento di Breillat quello di raccontare ne L’Été dernier la liberazione sessuale e la perdizione estatica dei sensi (a cui contribuisce anche la musica, si pensi all’irruzione in due momenti di Dirty Boots dei Sonic Youth – dopotutto Kim Gordon è la consulente per la colonna sonora), ma semmai riflettere su come il corpo erotico sia stato espulso come oggetto di discussione dal consesso sociale, dal discorso collettivo e infine anche del cinema, che è invece caduto nella trappola del contemporaneo, e delle sue regole più o meno scritte. È nel cinema, prima ancora che nel sesso, che si trova la libertà di Breillat, nel cinema e nella sua possibilità di vedere, e dunque mostrare ciò che si vuole nascosto sotto le coperte, negli sgabuzzini, nei luoghi inviolabili dell’intimità.

Info
L’Été dernier sul sito del festival di Cannes.

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