Election

Election

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Nel 2005 con Election Johnnie To affrontava di petto la questione delle triadi hongkonghesi, e della spartizione mai equa e mai gentile del potere attraverso un affresco di rara cupezza che rileggeva in modo personali i punti cardine del genere. Non molti forse si resero conto della sua effettiva grandezza, ma forse c’è ancora modo e tempo per rimediare.

Il bastone del comando

In questo primo episodio si assiste alla “campagna elettorale” che mette uno contro l’altro Lok e Big D: il primo è dato per favorito, visto che ha anche dalla sua l’appoggio dei membri anziani della triade. Ma nessuno ha fatto realmente i conti con la sete di potere di Big D. Ha inizio dunque la corsa alla conquista del Bastone del comando, simbolo imperituro del potere… [sinossi]

Rimettendosi al “lavoro” su un’opera come Election (l’originale cantonese suona Hak se wui, il carattere cinese tradizionale riporta invece 黑社會, e il significato nel primo caso è “società nera”, nel secondo “triade”), tornando alla visione a quasi venti anni dalla sua realizzazione, costringe a una serie di riflessioni, di domande, di ripensamenti di un’epoca che con troppa rapidità è stata fatta svanire dal panorama. Un’epoca in cui la produzione cinematografica asiatica, tanto del medio ed estremo oriente quanto del sud-est del continente rivendicava il suo diritto paritario rispetto all’Occidente; una rivendicazione che passava per i festival, ovvio, ma che trovava connessioni fertili anche con il pubblico meno avvertito, grazie in parte al ricorso al genere, ai suoi codici sempre in sommovimento, rilettura, rivoluzione. Un’ottusa parte del mondo critico si rifiutava aprioristicamente di confrontarsi con gli elementi più vitali dell’immaginario cinematografico mondiale – come dimenticare la proiezione stampa disertata di Still Life di Jia Zhangke, meritatissimo Leone d’Oro veneziano, o i barbosi dubbi sollevati dall’intellighenzia italiana di fronte alla proiezione lidense di Exiled? –, e quindi autori quali Johnnie To, Takashi Miike, Sion Sono, Park Chan-wook non venivano nemmeno considerati autori, ma semplici esecutori di un cinema che non si aveva la volontà di comprendere. Un cinema che mostrava uno sguardo personale in un’epoca già avvezza alle repliche, alla comodità dell’ovvio, agli angoli smussati e alle letture predigerite e preordinate. Eppure rivedendo Election, che fece splendida mostra di sé nel concorso di Cannes 2005 (con lui tra gli altri A History of Violence di David Cronenberg, Free Zone di Amos Gitai, Niente da nascondere di Michael Haneke, Three Times di Hou Hsiao-hsien, Broken Flowers di Jim Jarmusch, Le tre sepolture di Tommy Lee Jones, Last Days di Gus Van Sant, Manderlay di Lars von Trier), non si può non rimanere annichiliti di fronte alla deflagrante dimostrazione di classe di un cineasta come To? Quanti erano, viene naturale chiedersi, in grado di porsi allo stesso livello del regista hongkonghese per quel che concerneva la capacità di mettere in scena il “genere” e di reinventarlo di volta in volta? I detrattori obietteranno perfino oggi che non sempre il prolifico To (che all’epoca aveva già toccato e superato le quaranta regie, mentre oggi ha oltrepassato le sessanta) ha centrato il bersaglio; una asserzione condivisibile, forse persino innegabile. Eppure è proprio nelle opere meno riuscite che spesso si riesce a percepire l’imponenza dello sguardo e della maturità artistica del metteur en scene, in un processo di “identificazione autoriale” che avvicina il nome di Johnnie To ad altri grandi registi dell’oriente più estremo come il succitato Takashi Miike.

Eppure di tutto si potrà accusare Election tranne che di essere un film “minore”, sempre che questa categoria possa realmente esistere. Anzi, è vero tutto il contrario: Election è infatti la dimostrazione palese e in un certo qual modo incontrovertibile di un periodo ben più che florido per il cinema di Johnnie To, inaugurato sul finire del millennio da Running Out of Time e The Mission e proseguito con PTU, Breaking News, Throw Down, Election 2, fino a Exiled e forse anche più in là. Nel ritornare con la mente a Election non ci si lasci però ingannare dal fatto che si tratti a tutti gli effetti di un dittico – da anni si parla di un terzo capitolo, ma al momento al di là degli annunci di rito non è mai davvero entrato in pre-produzione – perché per quanto sia utile, se non a tratti indispensabile, pensare insieme i due capitoli sulla vita all’interno di una delle triadi che rappresentano di fatto il volto oscuro e nascosto del potere nella ramificata e convulsa catena economica e politica della città stato, Election ed Election 2 sono entrambi perfettamente autoconclusivi. Nel dare forma e contenuto all’intricato mondo della “mafia cinese”, Johnnie To si sbizzarrisce, lavorando letteralmente a briglie sciolte: a una prima parte contemplativa, in cui sembra al di più di assistere a un elegante e rarefatto kammerspiel criminale, viene poco alla volta accumulata una tensione emotiva e umorale tale da produrre una deflagrazione di violenza inarrestabile e glaciale. Studiando da vicino, con l’occhio spietato e curioso dell’entomologo, le relazioni umane soggiogate a una forma di potere troppo radicata e indiscutibile per non finire per opprimerle e schiacciarle, To sembra mettere in scena una partita a scacchi. I personaggi si studiano, preparano contromosse in continuazione, in attesa di poter dare il tanto agognato scacco matto; non che questo modo di ragionare all’interno della logica narrativa di To stupisca più di tanto, se è vero che in Fat Choi Spirit il mahjong diventava elemento primario di una storia che si sviluppava come un action in piena regola. Ma se in quel caso si aveva a che fare con il più classico dei ribaltamenti di senso di un genere, e dunque contestualmente si ragionava sulla sua intrinseca parodia, con Election To firma una delle sue opere più cupe.

Anche quando trasporta lo spettatore al culmine della sua capacità partecipativa, agendo attraverso l’arma dell’imprevedibile e del grottesco (come per esempio la lunga sequenza che ha come suo fulcro dinamico la conquista del Bastone bianco da parte dei fedelissimi di Lok e Big D), la sua messa in scena non si abbandona mai al piacere prettamente ludico – anzi, è proprio al termine di questa scaramuccia che si assiste a una delle scene più violente, con un combattimento a colpi di machete capace di spegnere anche il sorriso più ostinato –, ma si fa al contrario millimetrica, spietata, precisa. Al contrario di Exiled, dove la dimensione epica non è mai dimentica delle scaturigini giocose del racconto d’armi, Election (ma anche, come si vedrà, Election 2) ha dalla sua una statura tragica che porta con sé qualcosa di arcaico e immutabile: è un grido di rabbia e disperazione, l’accurata ed efficace descrizione di un mondo in decadenza che sembra a latere possedere i rintocchi e le reminiscenze di grandeur dei lieder tardo-romantici di Gustav Mahler. Alla medesima stregua del mondo che viene descritto anche la violenza esplode in maniera rapsodica e al contempo estremamente misurata. Ed è qui, nella già citata sequenza dell’inseguimento ma soprattutto nel monumentale finale in cui catastrofe e trionfo si mescolano in maniera indissolubile che la grandezza del cinema di Johnnie To torna prepotentemente a farsi largo nei salotti cinefili della sua epoca, ma anche e forse a questo punto soprattutto della contemporaneità. In quella sequenza, con Lok reso barbaro dal potere acquisito che massacra a colpi di masso l’amico/nemico sotto gli occhi terrorizzati e increduli di una famiglia di macachi, è racchiuso il segreto del cinema di Johnnie To. Un segreto cui molti, troppi, all’epoca voltarono ottusamente le spalle. C’è ancora tempo per rimediare, redimendosi e redimendo al contempo quest’oggi mediocre, imbelle, così innocuo da potersi permettere qualsiasi abiezione al di là di ogni morale, dello sguardo e attraverso esso.

Info
Il trailer di Election.

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