Bob Marley – One Love

Bob Marley – One Love

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Caratterizzato da consuete semplificazioni narrative ed espressive purtroppo frequenti nei biopic musicali degli ultimi anni, Bob Marley – One Love di Reinaldo Marcus Green conferma la fase non esaltante che il film biografico su artisti del recente passato sta attraversando nel cinema mainstream anglosassone. Buona la prova del protagonista Kingsley Ben-Adir, ma manca un po’ tutto il resto.

Cattivi, cattivoni e cattivacci

Dopo un’infanzia difficile passata nella Giamaica dilaniata dalla povertà e dai costanti e violenti disordini sociali, dal 1976 fino al 1981 della sua morte prematura Bob Marley dedica la propria attività musicale a un diretto impegno sociale in favore della pace e della redenzione degli ultimi del mondo. A poco a poco la sua musica travalica i confini proiettandosi su uno scenario internazionale e sottoponendosi al rischio di impastarsi con le ragioni del commercio e del profitto rappresentate dal mercato discografico. Tuttavia, Marley rimane fedele alla propria spiritualità rasta, mentre vagheggia di portare la propria musica in Africa. [sinossi]

Kingsley Ben-Adir è fotogenico. È un primo dato assolutamente non secondario e piuttosto significativo nell’affrontare la visione di Bob Marley – One Love, biopic dedicato alla figura del celebre musicista giamaicano e diretto da Reinaldo Marcus Green, già regista, tra gli altri, di Una famiglia vincente – King Richard (2021) che fruttò a Will Smith un Oscar al miglior attore e che costò a Chris Rock uno schiaffone in pieno viso durante la notte delle statuette hollywoodiane. Il vero Bob Marley aveva una fisicità molto specifica, particolare, più irregolare e anticonvenzionale già nei suoi tratti esteriori. Optare per Kingsley Ben-Adir (che pure nel film se la cava bene) è invece frutto di un’intenzione ben precisa: addomesticare la figura di Bob Marley, renderlo familiare, docile, facendo piazza pulita di tutti i suoi lati più scomodi. Un’operazione di restyling che prende le mosse fin dalla fisionomia del protagonista, accattivante, sorridente e cool quanto basta per andar bene sostanzialmente a qualsiasi tipo di platea. Del resto, è una tendenza prevalente in tutti i biopic musicali mainstream che hanno affollato le sale nell’ultimo decennio: in misura maggiore o minore il successo di pubblico è sempre garantito, assai meno è garantita la qualità del prodotto. Che pure nasce quasi sempre come tale, un prodotto meramente commerciale per solleticare la nostalgia di chi ha vissuto gli anni e la musica del divo al quale si rende omaggio, e per avvicinare le generazioni più giovani alla produzione artistica di colossi della musica del passato. In tal modo l’operazione può essere anche meritoria, ma certo poco ha a che fare con il cinema in senso stretto.

Ovviamente, come succede con qualsiasi tendenza fortemente legata al commercio e al mercato, con il passare del tempo la stilizzazione e la standardizzazione si fanno sempre più forti. Se Bohemian Rhapsody (Bryan Singer, 2018), dedicato alla vicenda artistica di Freddie Mercury e dei Queen, poteva ancora essere di qualche interesse, d’altro canto in mezzo abbiamo visto sfilare fittizi Elton John, Céline Dion, Whitney Houston, e a breve arriverà sugli schermi pure una ricostruzione della breve vita di Amy Winehouse. Il tratto più comune a questa messe di biopic musicali è l’estrema semplificazione del racconto – in tutto questo fa eccezione Elvis (Baz Luhrmann, 2022), ottimo film incentrato sulla figura di Elvis Presley. In linea generale tali occasioni riducono radicalmente il fatto filmico a un’acritica esaltazione del protagonista di turno, fortemente ripulito di qualsiasi genere d’ombra che possa fluttuargli intorno. Si tratta di un’operazione di politically correct condotta con metodi talmente scientifici da impattare anche su figure complesse, stratificate e problematiche come Bob Marley. Per cui non pare un caso che il primo interesse sia stato quello di affidare il ruolo a un Kingsley Ben-Adir ben fornito di dreadlocks, ma dal sorriso angelico e smagliante. Ancora più a fondo, quest’operazione di ruffiana confezione si abbatte fatalmente sul nucleo più fondante e significativo della vita di Marley. Sulla carta Bob Marley – One Love affronta infatti senza giri di parole l’impegno politico del musicista puntando dritto al cuore del suo fiero attivismo internazionale, tutto concentrato nel puro e semplice potere unificante della musica. Di fatto, però, nel film regna sovrana la semplificazione, sia stilistica che narrativa, a cominciare da una Giamaica ricostruita con rozze e robustissime stilizzazioni da fumetto. Le didascalie in apertura servono soltanto a dare un quadro di massima della situazione socio-politica in cui Marley si trovò ad agire. I due partiti giamaicani che si oppongono violentemente sullo scenario sociale sono genericamente nominati, e non sappiamo nemmeno a quali schieramenti politici appartengano rispettivamente. Si dirà «Non importa, Marley si batteva per l’appunto per un’unificazione pacifista al di là delle etichette». Premesso che anche questa pare un’interpretazione estremamente semplificante dell’attività di Marley (più che il riscatto dei poveri del mondo, saremmo di fronte a un opinabilissimo corporativismo sociale), è pur vero che Green sembra voler disinnescare qualsiasi elemento troppo destabilizzante tenendolo ben fuori dal proprio film, o dandone una rozza rilettura buona per tutte le stagioni. Marley faceva un uso eccessivo di marijuana, ma fra le tante cose nel film non ci accorgiamo nemmeno di questo.

In sostanza Bob Marley – One Love ricorre a una sintesi semplificante che riduce molti elementi all’ingigantimento da operetta o da cartoon – basti pensare ai cattivi che si oppongono all’esordio del film e che ricorrono più volte lungo il racconto. Della storia politica giamaicana si apprende davvero poco, così come dei rapporti problematici tra Giamaica e Stati Uniti. E la Giamaica stessa è narrata per macro-stereotipi sociali ai limiti del folklore esotico; la cultura rasta, che pure ha ricoperto un ruolo fondamentale nella vicenda di Bob Marley, è ricondotta a linee espressive di pura e semplice eccentricità antropologica. Colore locale, tinte forti ed estrema sintesi: queste sembrano le parole d’ordine di Reinaldo Marcus Green. Non cambia molto con la successiva apertura della storia di Marley al panorama internazionale. Bob Marley – One Love ripercorre le più classiche tappe narrative del personaggio che da marginale diventa di successo. La causa sociale sembra perdere in purezza quando si trova a contatto con il grande mercato discografico. Ma Marley resta fedele a se stesso, e anzi la guadagnata ampiezza mondiale della sua attività non fa che amplificarne la portata. Parallelamente le beghe con la compagna Rita propongono una pallidissima riedizione della difficile conciliazione fra vita privata e pubblica, mentre il film sorvola (ancora semplificazioni) sulla numerosa prole che Marley ebbe da più donne. Per movimentare il racconto Green sceglie di alternare più piani temporali diversi, ma anche le fiamme del flashback più reiterato si adeguano a un rozzissimo simbolismo di efficacia immediata ed epidermica. Se proprio ci è costretto, Bob Marley – One Love allude, ma non analizza. Alla stessa debolezza è così lasciato anche il tema del rapporto con il padre, un bianco che con atteggiamento coloniale abbandonò la madre di Bob e che non ebbe praticamente mai veri rapporti con il figlio. Eppure anche questo dettaglio di vita personale, che avrebbe potuto innescare riflessioni non banali su quella parte povera del mondo alla quale Marley dedicò tanta passione artistica, è puramente enumerato e reiterato come sciagura del tutto privata, un ulteriore tassello sul dramma di un individuo e non di una comunità. E sulla giovane morte di Marley il film vola via rapidissimo, senza troppa enfasi nemmeno sulle motivazioni per cui il musicista decise di non ricorrere all’amputazione dell’alluce. Tanta gloria tanti dolori, sembra essere il mantra di molti dei biopic musicali degli ultimi anni. Un tòpos, uno stilema che del resto risale alla notte dei tempi cinematografici fin da È nata una stella in tutte le sue varie riedizioni e remake.

Alla produzione del film ha contribuito anche la famiglia del protagonista, e questo potrebbe spiegare l’approccio anodino e agiografico adottato dal film. In realtà il problema non si limita a questo, ma si estende a tutta una tendenza commerciale che celebra ed esalta, e mai problematizza. Riguarda il biopic musicale degli anni Duemila, ma riguarda, a ben vedere e purtroppo, molto cinema mainstream anglosassone di ultima generazione. Green sceglie di non eccedere nemmeno nella durata, circa 105 minuti, laddove il biopic musicale si dilunga solitamente oltre le due ore. Basso profilo e fotogenia.

Info
Bob Marley – One Love, il trailer.

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