Zamora

Zamora

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Anche Neri Marcorè si iscrive al registro affollato degli interpreti decisi a confrontarsi anche con la messa in scena, e il suo Zamora guarda dalle parti di Pupi Avati ed Ermanno Olmi, senza però riuscire a scavare davvero a fondo, per un lavoro aggraziato ma che resta sempre in superficie.

Scapoli e ammogliati

Il trentenne Walter Vismara ama condurre una vita ordinata e senza sorprese: ragioniere nell’animo prima ancora che di professione, lavora come contabile in una fabbrichetta di Vigevano.Da un giorno all’altro la fabbrica chiude e il Vismara si ritrova suo malgrado catapultato in un’azienda avveniristica della vitale e operosa Milano, al servizio di un imprenditore moderno e brillante, il cavalier Tosetto.Andrebbe tutto bene se non fosse che costui ha il pallino del folber (termine coniato da Gianni Brera) e obbliga tutti i suoi dipendenti a sfide settimanali scapoli contro ammogliati. Walter, che il calcio non lo sopporta, si dichiara portiere solo perché è l’unico ruolo che conosce. È costretto a giocare per non perdere l’impiego e oltre alla valanga di gol che subisce deve sottostare agli sfottò dei colleghi. Tra questi, l’antipatico ingegner Gusperti lo prende di mira fin da subito, lo ribattezza “Zamora” paragonandolo sarcasticamente al grande portiere spagnolo degli anni ‘30; non solo lo umilia in campo e lo bullizza in azienda, ma tra lui e la segretaria di cui Walter si innamora, sembra esserci del tenero… Sentendosi tradito da una parte e deriso dall’altra, il ragioniere escogita un piano del tutto originale per vendicarsi. Nel calcio, come nella vita, bisogna imparare a buttarsi, anche se perdi, l’importante è rialzarsi e ripartire. [sinossi]

Nella settimana in cui l’annuncio delle nomination per l’assegnazione dei David di Donatello certifica come l’industria brami a spingere sempre più attori di rilievo della cinematografia patria ad assurgere al ruolo compiuto di “autori” (dei cinque esordi che concorrono alla ricezione del premio si trovano ben quattro interpreti – Paola Cortellesi, Giuseppe Fiorello, Micaela Ramazzotti, Michele Riondino – e anche tra i documentari si legge il nome di Kasia Smutniak), è interessante notare come arrivi in sala Zamora, con cui si confronta per la prima volta con la messa in scena Neri Marcorè. Una tendenza sempre più netta del mainstream italiano, come testimoniano le “prime volte” anche per Giuseppe Battiston, Pilar Fogliati, Alessandro Roja, Claudio Bisio, Margherita Buy, e che al di là dei meriti dei singoli film riflette una volontà conservativa, dove il supposto “nuovo” è in realtà affidato a chi è già parte integrante del sistema da anni, in alcuni casi decenni. In questo scenario Zamora si incastona dunque con una certa immediatezza, anche se è percepibile la voglia di Marcorè di affrontare l’inedita avventura con un piglio personale, o almeno con una nettezza inequivocabile dei riferimenti in atto. Fin dalla sua presentazione al barese Bif&st lo scorso mese (ma il film ebbe la sua anteprima assoluta a Villerupt) buona parte della critica ha puntato l’accento sul recupero di determinate atmosfere olmiane, e non c’è dubbio che già solo per la rappresentazione di una Milano nel gravitar del boom economico i riflessi del grande autore de Il posto possano farsi più percepibili nel controluce. Eppure l’impressione è che nella storia di un contabile di provincia che si confronta con la grande città e il suo rutilare non privo di crudeltà gratuite l’attore marchigiano abbia tratto insegnamento anche dall’esperienza lavorativa avuta con Pupi Avati (sui cui set si è trovato impegnato quattro volte, per Il cuore altrove, La seconda notte di nozze, Gli amici del bar Margherita, e il televisivo Le nozze di Laura).

Ecco dunque che Zamora prende da subito la postura di una commedia non urlata, gentile, che guarda al passato con occhio nostalgico, per rintracciare in quella Milano che non c’è più i piccoli gesti, le abitudini dimenticate, un vivere quotidiano diverso dai ritmi odierni e dalla prassi contemporanea. Nella storia del contabile Walter, che vivrebbe senza alcun tipo di problema la sua intera esistenza nel pavese, per l’esattezza a Vigevano – e la mente non può che correre dalle parti de Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi da cui trasse ispirazione nel 1963 Elio Petri per la sua opera terza: dopotutto anche lì, come nel film di Marcorè, si discetta di soprusi e umiliazioni, e brumosi desideri di vendetta – ma è costretto dagli eventi a trasferirsi nel capoluogo lombardo, si legge la volontà di Marcorè di riallacciarsi a tanta memoria del cinema italiano, dai nomi già citati al Fantozzi di Salce/Villaggio, visto e considerato che Walter viene precettato in azienda per partecipare alle settimanali sfide calcistiche tra scapoli e ammogliati, che così poco lo interessano da spingerlo in porta, nell’unico ruolo all’apparenza non collettivo del calcio. Proprio per questa sua scelta solipsistica viene ulteriormente deriso dall’insopportabile ingegner Gusperti, interpretato da un eccellente Walter Leonardi (il cast è il punto di forza del film, forse non a caso visto il curriculum del neo-regista), che gli affibbia il nomignolo che dà il titolo all’opera e che con sarcasmo getta un ponte tra lo scarsissimo calciatore Walter Vismara e l’eccelso portiere che rappresentò la Spagna a cavallo tra le due guerre mondiali ed è ancora oggi considerato uno dei massimi esponenti del suo ruolo a livello mondiale.

Marcorè omaggia la Milano che già all’epoca, e da lì in poi, diede una sterzata notevole all’avanspettacolo italiano – si vedano le partecipazioni amicali all’interno del film, e si troverà un fil rouge abbastanza evidente in tal senso –, e che preferisce rimanere al sicuro nel suo bozzolo, senza tradire quella propensione allo sguardo gentile cui si faceva riferimento dianzi. Semmai l’ingresso in scena del regista stesso nei panni del coriaceo Giorgio Cavazzoni, destinato a diventare spalla e mentore di Walter, è l’unico vero scossone all’interno di una narrazione che a forza di prediligere il minimale rischia di dimenticare per strada la vita, e dunque anche lo spessore psicologico dei suoi personaggi. Giorgio/Marcorè è invece ruvido, vissuto, straripante al punto da sovvertire le regole e prendere fondamentalmente le redini del racconto, anche perché rimanendo sempre in superficie del povero Walter lo spettatore, dopo un iniziale interessamento, non sa davvero cosa farsene. L’impressione è che se a Zamora si toglie la copertina ambientale resta assai poco da annotare, se non – e questa è forse la nota più sorprendente – l’ottima capacità di Marcorè di mettere in scena uno sport spesso ritenuto ostico come il calcio: eppure, di nuovo, il film trova altre traiettorie, più prevedibili e meno coraggiose, e lascia in secondo piano anche il côté più spudoratamente sportivo della vicenda. Rimanendo però così in un limbo indistinto, opera aggraziata e dimenticabile, che non sa stagliarsi nell’immaginario né coinvolgere attraverso una narrazione davvero convincente.

Info
Il trailer di Zamora.

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