Felicità

Felicità

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Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, Felicità è un dramma robusto, pessimista e incattivito che fugge dalle consuete indulgenze e consolazioni a cui ci ha abituato il cinema italiano di consumo degli ultimi decenni. Sbilenco e squilibrato, non esente da ridondanze e sbavature, ma pulsante di una contagiosa generosità espressiva che finisce per conquistare. Notevole prova collettiva di un cast d’attori molto affiatato.

Transazioni finanziarie

Parrucchiera che lavora sui set cinematografici, Desiré si fa interamente carico della sua famiglia d’origine, composta dai genitori Max e Floriana (lui spiantato presentatore di tv locali, lei casalinga) e dal problematico fratello Claudio, segnato da depressione e disturbi dell’umore che bloccano le sue possibilità di adattamento sociale e professionale. Di indole generosa, incapace di dire di no alle richieste sempre più pressanti dei suoi familiari, Desiré finisce per mandare in crisi anche il suo rapporto di coppia con Bruno, assennato professore universitario più attempato di lei, che pure la ama molto ma che a poco a poco non riesce più a condividere il suo atteggiamento di servilismo nei confronti dei congiunti.

L’esordio alla regia di Micaela Ramazzotti si presenta innanzitutto con un titolo antifrastico. Felicità è una speranza, un augurio, un’opzione per il futuro? O forse la protagonista Desiré è follemente felice così, prostrata a una generosità autolesionistica nei confronti della famiglia, del lavoro e in fin dei conti pure del compagno, che tanto si dà da fare per aprirle gli occhi? Felicità è l’opera prima che non ti aspetti. Triste, pessimista, incattivita, priva di qualsiasi indulgenza verso i personaggi che racconta. Sulle prime viene da pensare di assistere a un ennesimo interno familiare all’italiana, oggetto di una consueta commedia di costume di ambientazione romana e piccolo-borghese come mille altre abbiamo visto negli ultimi trent’anni di cinema di casa nostra. Alcuni spunti iniziali fanno pensare a questo. L’introduzione al racconto illustra una consueta svampitella bionda dal forte accento romano, ruolo cucito addosso a Micaela Ramazzotti da almeno quindici anni. E Desiré è anche questo. Il personaggio principale è una sorta di summa di altre figure femminili incarnate più volte nella carriera dell’attrice. Gli imbarazzi della ragazza nel trovarsi in eleganti contesti di élite fanno pensare subito all’Anna Nigiotti di La prima cosa bella (Paolo Virzì, 2010) e ai suoi strafalcioni linguistici e comportamentali.

Eppure, la sceneggiatura scritta sempre da Ramazzotti con la collaborazione di Alessandra Guidi e Isabella Cecchi svolta presto verso orizzonti sensibilmente diversi. Innanzitutto emerge con forza uno sguardo aspro e senza sconti nei confronti di un contesto antropologico piuttosto credibile e veritiero. La famiglia disfunzionale, oggetto principe di tanto recente cinema italiano di consumo, si inscrive stavolta in un interno quotidianamente orrendo, significativo e penetrante nel disegno delle sue figure. Nessuno è un mostro fino alle estreme conseguenze. Ma sono anche mostri, in tutto e per tutto, in particolare le figure dei due genitori. Felicità sembra voler parlare anche dell’Italia, innestando nei suoi personaggi profili esemplari di un certo modo di pensare e comportarsi nel nostro Paese, oggi come ieri. Così, i genitori Max e Floriana (ottima prova di Max Tortora e Anna Galiena) sono un impasto di luoghi comuni e mentalità superate, di quotidiani razzismi, miserie e ipocrisie. Sono l’incarnazione di un affannato inseguimento del benessere sempre al di sopra delle proprie possibilità, ché tanto quel che conta è l’immagine e magari instillare un po’ d’invidia negli altri. Eppure, al tempo stesso mamma Floriana emana il profumo della cucina di casa. Si delinea per un mostro quando ci fermiamo a pensare un attimo in più a quel che dice, a quel che fa. Fino a un secondo prima, è un’ordinaria donna di casa che a modo tutto suo stravede per marito e figli, e il cui interesse principale è preparare ottimi pranzi per tutti e darsi poco pensiero. O magari fare un video al marito che si esibisce in una squallida festa mentre la sua famiglia va a rotoli.

L’Italia di Felicità, tutta racchiusa nel nucleo familiare dei Mazzoni, rischia di sembrare fin troppo allegorica e didascalica. Non lo sono in realtà gli strumenti del film. Negli ampi dialoghi, distesi in sequenze spesso molto lunghe, risuonano temi dell’Italia di ieri e di oggi disciolti in un naturale flusso di parole che lasciano esprimere i propri intenti senza eccessive enfasi e sottolineature. L’ambizione di Felicità è il racconto di una disastratissima Italia di oggi che paga ataviche colpe delle generazioni precedenti. A ben vedere, le colpe sono quelle tipicamente italiane di sempre. Pressappochismo, cialtroneria, fuga dalle responsabilità, facilità nel rovesciare le colpe dei propri fallimenti sull’ultimo sfortunato in arrivo (il reiterato disprezzo per gli extracomunitari…), tendenza a ottenere sempre il massimo con il minimo sforzo, e magari grazie alla fatica di qualcun altro. Papà Max soffre un’imperitura frustrazione per non essersi affermato nel mondo dello spettacolo, ma intanto, in una delle notazioni più acute, si è preso giovanissimo la baby-pensione anni Ottanta pur avendo due figli piccoli a carico. Nell’angusta odissea dei Mazzoni si delinea un penetrante sguardo sull’eterna lamentazione italica che conosce qualsiasi forma di rimostranza fuorché la minima traccia di autocritica. Del resto, l’autoassoluzione fa parte anche di tanto cinema italiano degli ultimi anni. Felicità non ci sta, guarda altrove, registra un disastro e ne dà conto a chiarissime lettere.

E i figli? In tale guazzabuglio psico-sociale i figli si delineano come veri e propri ostaggi. Tributati di enormi responsabilità fin da piccoli, c’è chi non riesce a scrollarsi di dosso l’ingiusto senso di colpa verso la famiglia (Desiré) finendo in un tunnel senza fine di generosità malriposta, e chi invece approda alla conclamata psicopatologia (Claudio, il ritratto forse più significativo, lancinante e infine commovente). A tenere uniti questi rapporti tanto traballanti non rimane altro che il denaro e l’interesse economico. Desiré e Claudio conservano anche un filo di vero affetto reciproco, ma intorno (e un po’ anche tra loro due) regna la pecunia. Felicità è percorso da continue transazioni finanziarie, in cui spesso la moneta di scambio è il ricatto emotivo. E se non è il ricatto emotivo, è qualcosa di ancor più umiliante – vedere per credere papà Max alle prese con il responsabile della tv locale per cui lavora. Unica a risparmiare fin da ragazzina, Desiré è di fatto il pozzo finanziario a fondo perduto di tutta la famiglia. Più è generosa, più la schiacciano. Ha qualche responsabilità pure lei? Il compagno Bruno, professore universitario visto dai suoceri come un presuntuoso che ha studiato, la mette in guardia più di una volta. E soprattutto reclama più volte da Desiré un suo punto di vista, una sua presa di posizione.

In tal senso Felicità si rivela di nuovo acuto nella radiografia di una radicale indeterminazione che affligge Desiré fino all’immobilità. Desiré subisce i condizionamenti degli altri ma è altrettanto incapace di un vero scatto di orgoglio individualistico, sempre mossa da un nebuloso bisogno di essere amata dagli altri. Del resto, è ancora Bruno a delineare aspramente l’intima vocazione alla transazione che anima i desideri della donna. Quasi come se non conoscesse nessun altro strumento di rappacificazione, in qualsiasi situazione conflittuale Desiré cerca sempre la riconciliazione tramite il sesso, vissuto come una sorta di pagamento – e in prefinale, se pure il colpo di scena sull’infanzia sembra una zeppa eccessiva piazzata a caricare un po’ gratuitamente il dramma della protagonista, non a caso Desiré parla di ciò che ha subito come di una forma di pagamento della casa al mare, vittima immolata al benessere della famiglia fin da bambina. Ulteriore tratto di originalità nel panorama italiano di consumo è la struttura iterativa del racconto, che sembra non andare mai incontro a un reale sviluppo. Felicità reitera di fatto la stessa situazione di immobilità esistenziale registrando i tentativi arrancanti di una famiglia per uscire dalla propria impasse ma sempre con risultati fallimentari. Le liti in famiglia si ripetono, si tentano strade e soluzioni che si chiudono sempre in un nulla di fatto, non ultimo l’intervento della psicoterapia, che sembra poter fare assai poco per aiutare Claudio. D’altra parte, è la generazione di Max e Floriana a essere intimamente refrattaria a qualsiasi idea di problema psichico – la depressione è un lusso, cercati un lavoro vedrai che i pensieri ti passano, e via dicendo. Cosicché anche il tentativo più faticoso e balbettato di scavare dentro se stessi finisce nell’incredula risata di chi ascolta (davvero tutto il disagio di Claudio si riduce a un trauma in mezzo alla stradella al mare?). In ultima analisi Felicità racconta un eterno stallo che non riesce a dischiudere né le proprie cause né eventuali vie d’uscita. Non c’è riscatto, non c’è salvezza. Al massimo si riesce a prendere un treno. Piccola conquista. Ma l’orizzonte generale è assai scuro.

In tutto questo fa da contraltare l’ambiente del cinema, in cui Desiré lavora come parrucchiera. Non vi è alcunché di scintillante; di fatto Desiré fa parte del proletariato cinematografico, sfruttata e trattata come l’ultima manovale, e sbrigativamente messa alla porta quando i suoi problemi personali si fanno troppo invadenti. Più in generale Felicità si articola anche in una dicotomia sociale fra la rozza piccola borghesia dei Mazzoni e gli ambienti altolocati cui appartiene Bruno, il compagno di Desiré. In un film in buona parte dedicato a se stessa come attrice (ma con buoni margini di generosità nei confronti degli altri protagonisti), Micaela Ramazzotti forse allude anche al proprio percorso autobiografico, presa in mezzo fra i suoi ricorrenti personaggi di svampita popolana e il fastoso ambiente del cinema in cui ha avuto modo di brillare anche a fianco di Paolo Virzì. È un elemento narrativo in fin dei conti secondario e non pienamente sviluppato, in cui forse risulta non del tutto incolpevole anche il personaggio di Bruno, figura illuminata e portatrice del buonsenso che manca a tutti gli altri ma alla resa dei conti incapace di dialogare sia con Desiré sia con i suoi familiari. A fronte dei pregi di un film per certi versi sorprendente, Felicità mostra anche evidenti limiti tipici di un’opera prima italiana realizzata dalla stessa attrice che ne è la protagonista. Sono molti i pleonasmi, le ridondanze, le parentesi poco necessarie, così come le citazioni colte buttate un po’ là senza particolare stratificazione – registriamo l’ennesima riedizione della derisione ai danni del guitto Baggini interpretato da Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965), rimesso in scena da Max Tortora, qui sbeffeggiato da Giovanni Veronesi nel ruolo di se stesso, ma perché, ci chiediamo? Quasi a voler concedere ad Anna Galiena una parentesi tutta sua, la Ramazzotti cuce per lei una sequenza in cui, sola in cucina, monologa davanti alla televisione – e anche qui avvertiamo un certo senso di gratuito. La rissa fra Desiré e Claudio davanti alla clinica psichiatrica lascia un po’ il tempo che trova. L’irruzione della canzone Desirée solleva abbondanti perplessità. Talvolta i tagli di montaggio sono immotivatamente bruschi, così come il finale sopraggiunge stordente e repentino senza evidenti ragioni. Più in generale Felicità soffre un po’ di sovraccarico narrativo, gonfio com’è di drammi che specie nell’ultima parte iniziano ad assommarsi uno all’altro un po’ disordinatamente. Eppure se ne ricava la sensazione gratificante di un film che se sbaglia, sbaglia per eccesso. In tal senso Felicità è un film generoso, un esordio da salutare con favore, anche per il coraggio di smarcarsi dalle consuetudini di un’industria italiana afflosciata da anni su pratiche abusate e stanchissime.

Info
Felicità, il trailer.

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