Io vivo altrove!

Io vivo altrove!

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Non un adattamento, bensì un’ispirazione, proveniente dal romanzo ultimo di Flaubert, segna l’esordio registico di Giuseppe Battiston Io vivo altrove!. Il viaggio di due uomini verso la propria rinascita sembra procedere in parallelo con il tentativo – non pienamente riuscito – di cambiare rotta alla tipica commedia all’italiana, a partire dalla fuga dalla capitale. Battiston ci prova e sceglie la delicatezza dei toni, senza riuscire tuttavia a evitare alcuni cliché.

Scappo dalla città (dilettanti allo sbaraglio)

Biasutti e Perbellini si chiamano entrambi Fausto e sono entrambi insoddisfatti, delle loro vite grigie e della città. Si conoscono per caso durante una gita fotografica in campagna e rimangono in contatto così, quando a Biasutti capita un’inaspettata eredità, decidono di mollare tutto e trasferirsi nella campagna friulana, di cui Biasutti è originario, per cambiar vita e improvvisarsi contadini. Sarà un disastro.[sinossi]

All’età di 54 anni, il bravissimo attore, teatrale e cinematografico, Giuseppe Battiston si dà alla regia con un film semplice e allo stesso tempo ambizioso, cercando ispirazione niente di meno che nell’opera ultima e incompiuta di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi: Bouvard e Pécouchet di Gustave Flaubert, pubblicato postumo nel 1881, un anno dopo la morte del suo autore. Si tratta però di un’ispirazione, di una suggestione e non di un adattamento, è bene precisarlo. I due borghesi di Flaubert si trasformano qui nel bibliotecario vedovo Fausto Biasutti (Giuseppe Battiston), gioviale ed entusiasta, appassionato di libri e di botanica, e nell’impiegato di un’azienda del gas Fausto Perbellini (Rolando Ravello), serio e ombroso, oppresso dalla madre, che trova sollievo unicamente nella fotografia. Io vivo altrove! si dipana dunque fra l’iniziale quiescenza (il termine è citato nel film) dei due protagonisti, in “sospensione vitale” come la calendula greca – la piantina che Biasutti custodisce amorevolmente e che porta con sé –, e la resilienza che i due manifestano tramite i loro sforzi, nonostante l’inettitudine che penosamente trapela da ogni loro sventurata iniziativa: che si tratti della realizzazione di un orto o del tentativo di creare una birra artigianale. I due attori protagonisti, il romano Ravello e il friulano Battiston, avevano già lavorato insieme, il primo come regista e il secondo come attore, in È per il tuo bene (2020).

Vogliamo lanciarci in un volo pindarico: ci sembra che parallelamente al tentativo dei due buffi e un po’ patetici personaggi del film di abbandonare la cementificata periferia romana per la vita di campagna nel Nordest, si diriga quello – non pienamente riuscito – del regista di sottrarsi alla commedia italiana che gravita intorno all’area della capitale, per riparare in una zona a lui certamente nota e cara, quella delle colline del Friuli, nella fattispecie nel fantasioso paesino di Valvana. Il talentuoso attore, qui anche sceneggiatore (a quattro mani con Marco Pettenello), si lascia infatti alle spalle tanto lo smaliziato cinismo quanto la comicità spesso grossolana così tipica di tante commedie “romane”, optando invece per delicati toni pastello, per due personaggi innocenti nel loro essere (in ogni luogo e in ogni senso) spaesati. E non accampa certo pretese sociologiche o caricaturali nel tratteggiare i caratteri bruschi e persino odiosi dei compaesani friulani (esilaranti le perfide frecciate, brevi e letali, della signora Gina, interpretata da Ariella Reggio), dai quali i due protagonisti incassano supinamente una serie impressionante di “mona!”. Piuttosto, si limita a usarli per contrasto, al fine di porre meglio in risalto la semplicioneria e l’incompetenza dei due nuovi arrivati; anche se la sceneggiatura spiega poi questa diffusa ostilità col fatto che la nonna da cui Biasutti ha ereditato la proprietà parlava male di lui in tutto il paese.

Perché parliamo di tentativo non pienamente riuscito? Perché gli autori, seppur osando un itinerario diverso e meno battuto, finiscono poi per ripiegare sui soliti codici e toni delle suddette commedie: il trionfo dei buoni sentimenti, la complicità e l’adesione incondizionata ai propri personaggi ai quali, nonostante le innumerevoli avversità, non si sognano mai di non perdonare ogni debolezza o di negare la speranza di realizzare i propri sogni. Ma più di ogni altra cosa, a fiaccare la gradevole e delicata comicità di battute e situazioni interviene lo scoccare, puntuale quanto anodino, della storia d’amore fra Perbellini e la bibliotecaria francese (Diane Fleri). Una svolta prevedibile, oltre che superflua e meramente decorativa, che nulla aggiunge al film e rischia anzi di distogliere da quel delicato equilibrio a due, da “quell’incanto di ogni relazione al suo nascere” – per citare il testo flaubertiano – senza aggiungerne un altro, d’incanto, e finendo così per approdare al più trito dei cliché, a quanto pare insopprimibile da almeno sessant’anni a questa parte: il colpo di fulmine dell’uomo italiano per la bella straniera, svedese, americana, spagnola o francese che sia. Ed è inutile puntualizzare come, nelle pagine di Flaubert, persino le relazioni amorose, esclusivamente sensuali, facciano parte della serie di sfortunati esperimenti dei due protagonisti. Così come annacqua un po’ i toni la nota patetica, più volte ripresa, della sofferenza di Biasutti per la morte della moglie (laddove nel romanzo la coniuge di Bouvard, molto più prosaicamente, se l’era filata con i soldi di lui lasciandolo nell’indigenza). Eppure fa simpatia la caparbietà, l’accanimento terapeutico, quasi, dei due compari nel perseguire il loro miraggio, ed è ancora più bello, certo, che questa forza che li spinge in avanti provenga dal loro legame, dalla loro amicizia sempre più profonda.

Dalla quiescenza alla resilienza, dunque, al riparo da ogni cinismo. Ed è soprattutto per questo che il richiamo di Battiston a Bouvard e Pécuchet non è che una semplice assonanza, né ambisce in alcun modo – bisogna riconoscerglielo – alla rima perfetta ma spesso sbiadita di tanti adattamenti da romanzi celebri. È una fantasia “basata su”, segue la trama del romanzo solo fino a un certo punto (gli eroi di Flaubert abbandonano gli esperimenti ortofrutticoli già a partire dal terzo capitolo onde cimentarsi, con pari insuccesso, nei vari campi dell’umana erudizione) né è propenso a sposarne lo spirito. La levità, l’empatia e la condiscendenza verso i propri personaggi sono una scelta (facile) del tutto difforme dallo sguardo cinico e beffardo, dal sommo disprezzo verso l’essere umano del grande romanziere normanno, e ancor più dal suo radicale, lucido pessimismo. D’altronde Io vivo altrove! è, per ammissione dello stesso Battiston, una fiaba che vuole omaggiare semmai il cinema dell’amato cineasta padovano Carlo Mazzacurati, prematuramente scomparso alcuni anni fa. E così alle rovinose illusioni del duo flaubertiano preferisce il sogno e la speranza, allo sberleffo di ogni umana ambizione, uno sguardo bonario e pacificato. Nulla di male, in questo, ma anche nulla di nuovo. E forse, date le premesse, era lecito aspettarsi qualcosina in più.

Info
Io vivo altrove!, il trailer.

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