L’amour ouf

L’amour ouf

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Con L’amour ouf Gilles Lellouche mescola insieme stili e ipotesi di racconto senza saper mai scegliere una via espressiva coerente, tra linguaggio da miniserie, action, musical, coming-of-age, dimenticando per strada tanto lo stile quanto lo studio dei propri personaggi. In concorso a Cannes 2024.

Ingannevole è il cuore senza un cervello

Jackie è un’adolescente a modo, figlia di un vedovo gentile e della piccola borghesia; Clotaire è un ragazzino scapestrato, figlio di una famiglia operaia e numerosa. Nonnostante le differenze, i due si innamorano e resteranno innamorati al di là del tempo e di ogni ostacolo… [sinossi]

Peggior titolo del Concorso di Cannes 77, L’amour ouf dell’attore e talvolta regista Gilles Lellouche è diviso in due parti: nella prima i protagonisti Jackie (Mallory Wanecque) e Clotaire (Malik Frikah) si conoscono da adolescenti; nella seconda, si ritrovano circa dieci anni dopo, che è quanto Clotaire (interpretato a questo punto da François Civil) ha trascorso in carcere. L’incipit del film, tratto dal romanzo Jackie Loves Johnser OK? di Neville Thompson (e alla cui riduzione per lo schermo partecipa anche il Leone d’Oro Audrey Diwan), è però “al presente” dove vediamo il giovane con la sua gang tentare qualcosa di molto pericoloso e Jackie adulta (Adèle Exarchopoulos) correre verso una cabina telefonica. L’intera narrazione si svolge prima dell’ingresso della Francia nell’eurozona in un’imprecisata città portuale nel Nord del Paese e principia negli anni ’80: il regista avrebbe a disposizione un grande potenziale, che invece sfiora soltanto concentrandosi sulla trita e non giustificabile love story, saltando stilisticamente di palo in frasca, mettendo dentro action, rom-com, Il tempo delle mele, numeri musicali, polar e chi più ne ha più ne metta. Potrebbe essere una miniserie in due puntate per la tv o Netflix (che distribuisce), ma funzionerebbe poco anche in questo caso perché le psicologie dei protagonisti non reggono – in particolar modo quella di Jackie – e le sottotrame neppure.

L’idea intrigante di L’amour ouf (un po’ gioco di parole con “fou”, ma anche con “uff” che è la traduzione di “ouf”, così come il significato gergale di “folle”) potrebbe essere quella di raccontare un passaggio epocale e generazionale, che i nati negli anni ’70 conoscono bene. Clotaire è figlio di un operaio portuale e ha quattro fratelli: la sua famiglia naviga nella mera soglia di sussistenza, lui non ha mai pensato di studiare o di avere un futuro, vedendo inoltre suo padre con i suoi colleghi scioperare contro la privatizzazione dello scalo temendo il conseguente taglio del personale. Nella seconda metà degli anni ’80 era già chiaro che gli adolescenti di allora se la sarebbero passata peggio dei propri genitori e se Clotaire rappresenta il proletariato sempre più povero, Jackie potrebbe rappresentare la piccola borghesia ancora aspirazionale rispetto al futuro dei propri discendenti ma destinata, anche lei, a essere smentita. A differenza di Clotarie, la ragazza ha un padre vedovo che svolge un lavoro autonomo (elettricista e antennista), abita in una graziosa villetta e non le fa mancare niente: sebbene Jackie sia stata cacciata da una scuola privata e cattolica, l’adolescente pare tenere all’istruzione e a costruirsi un futuro. La sua relazione con il papà (Alain Chabat) è inoltre stretta e sincera ed è il rapporto meglio raccontato dell’intero film. Fatalmente, poiché gli opposti si attraggono, Clotaire e Jackie si conoscono e dopo la scontata iniziale diffidenza di lei si innamorano. A differenza di Deborah in C’era una volta in America, qui la fanciulla non allontana il teppista, novello Noodles, ma anzi accetta che Clotaire armeggi – in ogni senso – che la mafia locale, abbassando ogni difesa e dignità travolta dall’amore. Nonostante la donzella detesti le favole di La Fontaine, che trova piatte e prive di complessità, quel che sta “apparecchiando” per il proprio avvenire è proprio la propria favola con Clotaire che, però, dovrà attendere oltre dieci anni per coronarsi: il ragazzo ormai è parte attiva della criminalità urbana e arriva a sfruttare persino un picchetto al porto (in cui suo padre è coinvolto) per derubare un portavalori con gli sgherri del boss locale. Ci scappa il morto e Clotaire si deve addossare la colpa (a sparare è stato invece il figlio del capo clan). Dopo anni e anni, Clotaire è identico a se stesso mentre Jackie è diventata una donna priva di qualsivoglia relazione psicologica o esistenziale con la ragazzina che la prima parte del film ci ha mostrato. Non si tratta di un’evoluzione, ma di un cambiamento di personalità radicale e l’unica cosa che è rimasta intatta per lustri è l’amore giovanile per Clotaire, che ha cercato di mettere da parte sposando un uomo piuttosto benestante (Vincent Lacoste) ma con cui le cose non funzionano. Diventata adulta, Jackie ha abbandonato ogni velleità o aspirazione e, come dice in una scena, non crede in niente: anche qui, nuovamente, il regista ha a disposizione spunti sui sogni infranti della piccola borghesia e il suo L’amour ouf potrebbe diventare un’interessante parabola sulla famosa – e reale – fine della classe media, sulla rottura dell’ascensore sociale e sulla disillusione democratica. Ma perché indugiare su temi tanto pesanti quando a disposizione c’è la storia d’amore? Ed è questa l’unica strada perseguita da un film che si rivela, man mano che procede, un lavoro di disarmante banalità: quasi tre inutili ore per dirci che l’amore è la cosa più importante della vita? Che nonostante ai due protagonisti la società abbia “sottratto” il futuro, l’importante è volersi bene?

Ad aggiungere danno alla beffa, Lellouche non pago gira tutto mescolando senza senso generi, codici, toni, con uno stile greve e con mano molto pesante: ci sono scene musicali – quella dell’innamoramento tra i due sotto le note di A Forest di The Cure è imbarazzante – momenti action, idilli fiabeschi, spaccati di reallismo. Ancora una volta, le vedute portuali e industriali o la scena in cui i giovani protagonisti viaggiano alla testa di un treno interno a una fabbrica (che sembra motteggiare Titanic, non ancora uscito nell’epoca in cui L’amour ouf è ambientato), lasciano il passo alla prevalenza del cuore (Beating Hearts è il titolo internazionale) sulla cui immagine si apre infatti il film. Caotico, flebile e scritto male, il lavoro di Lellouche si muove tra sogno, fiaba, generi cinematografici e naturalismo senza prendere una decisione su cosa essere e affastellando ogni possibile suggestione senza strutturarne nessuna.

Info
L’amour ouf sul sito di Cannes.

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