Intervista a Francesco Di Pace
Abbiamo intervistato Francesco Di Pace, da dieci anni Delegato Generale della Settimana Internazionale della Critica di Venezia. Un modo per fare il punto sulla selezione, sul festival e sul sistema-cinema italiano.
Non sempre si ha l’occasione, al termine di una kermesse cinematografica, di discutere sull’evento, sulla sua organizzazione e sulla selezione con chi ha il polso della situazione. Abbiamo colto al volo dunque la possibilità di intervistare Francesco Di Pace, per il decimo anno consecutivo Delegato Generale della Settimana Internazionale della Critica, di cui Quinlan è stato, per l’edizione appena conclusasi, media partner.
Inizieremmo, come da prassi, col chiederti un bilancio di questa edizione della Sic…
Francesco Di Pace: Noi siamo soddisfatti, il programma giustificava in maniera adeguata alcuni dei motivi per cui facciamo la Settimana della Critica, e cioè andare alla ricerca di nuovi autori, ma accontentando sia il pubblico che la parte cinefila e critica; credo che il programma sia stato abbastanza bilanciato.
Forse in questa edizione abbiamo avuto più film “da pubblico” rispetto agli anni scorsi. C’erano almeno tre-quattro lavori che potevano avere – e hanno avuto – un buon impatto sugli spettatori, e lo si è visto poi dalle votazioni, dalle sale piene. Parlo in particolare di Melbourne, Villa Touma, Dancing with Maria e di No One’s Child, senza dimenticare che anche il film cinese The Coffin in the Mountain ha avuto dei voti molto alti. Quindi ecco, da questo punto di vista, parlo del gradimento da parte del pubblico, siamo particolarmente contenti.
C’erano anche un paio di film che ci piacevano tanto e su cui io, per esempio, contavo molto come impatto su un pubblico di cinefili, di addetti ai lavori. Poi per i premi dipende molto dall’anno, dalla situazione: ad esempio capita magari che una giuria come quella del Leone del Futuro si innamori di un film come White Shadow, che non era piaciuto molto al pubblico, quindi… Ma i premi sono sempre qualcosa di difficile da valutare, il bilancio lo devi fare su tante cose, su tanti sentori, su tanti riscontri di gente che ti ferma per strada… Il bilancio lo fai su quello che succede a Venezia, visto che poi quello che succede sui media è un discorso – ahimé – dolente. Forse irrecuperabile, secondo me.
Sì, anche quest’anno abbiamo letto indicazioni sulla stampa nazionale a dir poco inesatte…
Francesco Di Pace: Lo stato generale è davvero avvilente. Oramai dalle grosse testate, con qualche eccezione, non c’è da attendersi più molto, a meno che tu non abbia fatto in modo che le tue piccole cose possano avere un risalto per motivi che ti costruisci a fatica, o che ti sono capitati per caso. Voglio dire: quest’anno abbiamo avuto articoli su Villa Touma perché c’era la questione israelo-palestinese molto calda, e quindi era una cosa vendibile ai giornali nazionali. Abbiamo “venduto” poi un film quando c’era l’attore o l’attrice, come la Bruni Tedeschi… Abbiamo venduto le cose che sapevamo che avremmo venduto perché c’erano personaggi televisivi in auge con i quali abbiamo chiuso in maniera onorevole la nostra settimana. Noi sapevamo bene che cosa facevamo con Arance e martello, il film di Diego Bianchi! Noi volevamo fare una chiusura festaiola con una commedia che aveva degli agganci con l’attualità, con la politica italiana, con tutti i suoi piccoli limiti, ma anche con tutte le sue innegabili virtù. Quindi tutto il programma era composto in una maniera che aveva un grande senso, secondo me. Perché la tendenza della Settimana – senza fare paragoni con altre sezioni – è quella di trovare un senso alle cose che si fanno. Nove film, sette opere prime, uno in apertura e uno in chiusura, che abbiano un senso un po’ complessivo. Io spero che ci siamo riusciti anche quest’anno, insomma.
Quest’anno c’è stato un allontanamento delle sezioni collaterali dalle sale principali. Come avete metabolizzato questo cambiamento, e quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi? Quali sono, secondo te, le prospettive per il futuro?
Francesco Di Pace: Guardate, ho le idee chiarissime su quello che è stato e che sarà. Quel che è successo l’abbiamo metabolizzato lentamente, però l’abbiamo metabolizzato; nel senso che il primo sentimento, dopo che ci è stata comunicata l’intenzione della Mostra, è stato quello del sentirsi estromessi dalla festa. Immagino sia una reazione naturale, ma che non vuole neanche essere polemica al 100% nei confronti della Mostra. C’è stata una trattativa, condotta in termini amichevoli e collaborativi. Loro avevano l’esigenza da una parte di giustificare un investimento sulla Sala Darsena che riguardasse le loro sezioni, perché sono stati spesi dei soldi e ovviamente se si spendono dei soldi la Mostra vorrebbe che questi soldi servissero alle cose loro, piuttosto che a quelle di due sezioni che loro dicono di rispettare e amare profondamente, ma che in un qualche modo sono pur sempre sezioni parallele. Io li capisco perfettamente; se fossi stato Barbera avrei fatto la stessa cosa, non lo nascondo, è una cosa naturale. Quello che si cercava di far capire era però: scusate, ma non vi valorizziamo anche noi con la nostra presenza?, non è accettabile una proiezione della Settimana, una proiezione delle Giornate, all’interno di una programmazione quotidiana composita, insomma la Darsena non potrebbe comporsi come sempre di tanti momenti differenti? Lì c’è stata invece l’esigenza di dare una casa a Orizzonti che valorizzasse la sezione, che negli ultimi anni si è trasformata rispetto all’Orizzonti di Marco Müller, che era più legato alla sperimentazione e che quindi nella struttura della Perla trovava una sua più giusta collocazione. Invece con Barbera la sezione Orizzonti, a mio avviso, si è data una veste più simile a Un certain regard, e quindi bisognava trovare una sala simile, per dire, alla Debussy di Cannes. Dunque di primo acchito c’è stata da parte nostra (e delle Giornate) un po’ di resistenza, un po’ di contrattazione. Dopo di che, la Perla… Noi nella Perla ci siamo stati, negli anni passati, quindi sapevamo benissimo che cos’era la Perla. La Perla è una sala a misura di Settimana della Critica, non lo nascondo affatto. Infatti gli anni migliori forse sono stati quelli che ci hanno visto dividere la Perla tra noi e le Giornate, dove ogni sezione si faceva lì le sue tre proiezioni al giorno. In effetti abbiamo tentato di farcela ridare tutta e di dividercela con le Giornate, ma c’è stata ancora una resistenza su questa cosa, perché la Mostra ritiene di aver bisogno di quei due slot serali per le anticipate stampa, e quindi ci siamo accontentati della Perla 2.
Però devo dire che alla fine il bilancio è piuttosto positivo, nel senso che le nostre due proiezioni in sala Perla si riempivano e la proiezione nella Perla 2 accoglieva nell’anticipata stampa ampiamente le persone. Naturalmente è pure chiaro che il pubblico è leggermente diminuito numericamente, e questo è un dato di fatto. Facendo i calcoli e si può dire che abbiamo perso due, trecento persone, rispetto agli anni scorsi. Ma io sono lo stesso contento. Chiederemo soltanto che la Perla venga migliorata a livello di accoglienza, di visibilità, di luci, cosa che quest’anno è stata abbastanza deficitaria, perché c’è stato un equivoco su quello che noi chiedevamo in termini di allestimento della sala. Però sono sicuro che l’anno prossimo si creeranno degli impianti luce più adeguati per accogliere le delegazioni in una maniera un po’ più confortevole, dando loro maggiore visibilità.
Torniamo un momento sull’analisi della selezione, magari partendo anche dal discorso sul vincitore e allargandolo in realtà ai film non selezionati, non perché vogliamo sapere cosa è rimasto fuori o meno, ma più che altro per capire, visto che voi avete il polso molto preciso su questa visione, quali sono secondo te le cinematografie più interessanti tra quelle che vi sono arrivate sotto gli occhi. Pensiamo per esempio all’Iran, alla stessa Serbia che ne è uscita vincitrice, o altre che magari non hanno avuto spazio quest’anno ma che comunque ti sembra abbiano dimostrato una particolare vitalità…
Francesco Di Pace: Quest’anno siamo rimasti molto contenti delle cose che ci sono arrivate dall’Oriente, e il risultato si vede nei due film che abbiamo preso. C’erano molti film francesi interessanti, che sono rimasti fuori per diversi motivi… A me per esempio piaceva molto un film francese che non siamo riusciti ad avere, ma che non è venuto proprio a Venezia, e quindi è rimasto fuori dai giri.
Il panorama tedesco mi ha abbastanza colpito, mi sono innamorato del film tedesco che abbiamo preso, The Council of Birds, però c’erano almeno altri due o tre film molto interessanti che ho visto a Monaco quest’anno. Poi, sai, abbiamo i soliti problemi con il cinema americano, ma perché Venezia cade in un periodo un po’ difficile per il cinema statunitense e per gli esordi, perché tutto quello che viene fatto alla fine va al Sundance o al Tribeca e poi a Cannes, quindi alla fine rischi di avere solo gli scarti o le prime internazionali che non sono state prese da Cannes. E forse anche per mancanza di contatti un po’ più seri con loro, diretti insomma; mentre in alcune nazioni abbiamo delle persone che segnalano qualcosa, oppure ci muoviamo noi direttamente. Però ci possiamo muovere relativamente poco, per questioni di budget e di possibilità di viaggi: quest’anno ad esempio ci siamo mossi anche in Turchia, siamo andati a vedere molte cose turche, e c’erano almeno tre film interessanti, che poi non abbiamo preso, perché li abbiamo tenuti in stand-by, erano nella short list fino all’ultimo. Insomma, quello che abbiamo selezionato è la punta di alcune cinematografie che abbiamo ritenuto interessanti. Se ne mancano altre è perché evidentemente tutto il materiale che ci veniva proposto da queste cinematografie raggiungeva un livello medio ma mai con una punta che spiccava sulle altre. Quest’anno poi non abbiamo selezionato niente dell’America Latina, per dire, a parte il documentario italiano Dancing with Maria che è in parte argentino, ma è successo perché non abbiamo trovato cose straordinarie, né tra i film cileni come l’anno scorso, né tra i messicani, come spesso succedeva negli anni precedenti. C’era un film argentino interessante, che abbiamo tenuto in short list ma che alla fine non ce l’ha fatta a convincere tutti…
Restiamo sulle cinematografie nazionali, magari focalizziamoci su quella italiana. Ancora una volta un film friulano, parliamo di Dancing with Maria, o quantomeno prodotto e diretto da un friulano… non ci sembra in realtà un caso, nel senso che tra le Film Commission quella che sta lavorando di più forse è proprio quella del Friuli Venezia-Giulia. Sempre partendo dal presupposto che avete uno sguardo ampio sul panorama, come ti sembra che stiano lavorando le Film Commission? In che stato versa il cinema italiano?
Francesco Di Pace: È evidente e lampante che in Friuli si stiano muovendo bene. Però ovviamente le Film Commission lavorano quando c’è gente che produce bene e quando ci sono talenti che vanno a girare da quelle parti. Il problema del cinema italiano è sì quello delle Film Commission, però fino a un certo punto. Il problema del cinema italiano – almeno per quel che riguarda il cinema degli esordienti, perché altrimenti andiamo a fare un discorso troppo ampio – è quello di produttori illuminati che mancano, persone che rischiano su registi e argomenti che non debbano necessariamente trovare un riscontro di pubblico, o essere successivamente veicolati in televisione. Quando ho visto il film di diploma di Timm Kröger mi sono reso conto di che cosa significa fare un film di diploma in una scuola di cinema in Germania e che cosa significa fare un film di diploma da noi. Ora, senza nulla togliere al Centro Sperimentale, però è evidente che quando a un ragazzo che deve esordire gli fai capire che se fa una commedia è meglio, perché avrà la strada spianata, allora magari anche il proprio istinto creativo, la propria tendenza a fare un film personale, più sentito, viene meno. Credo che questo soffochi i talenti. Poi c’è modo e modo di fare delle commedie. Per esempio a me è piaciuto tantissimo il film di Duccio Chiarini che è in Biennale College, Short Skin: la ritengo una commedia scritta molto bene, con molta sensibilità, con i giusti dialoghi, il giusto uso degli attori, eccetera. Quindi questa è la dimostrazione che si possono anche fare delle piccole commedie fatte bene, come era bella la nostra commedia dell’anno scorso, Zoran, il mio nipote scemo. Non è un discorso sui generi, è un discorso sulle tendenze. Quindi per tornare al discorso sulle Film Commission, ce ne sono alcune che dimostrano una certa vivacità; il Friuli ne è una, anche in Sardegna si stanno muovendo abbastanza, nel passato si muoveva molto bene la Puglia… Poi anche quella mi pare che stia diventando un po’ troppo istituzionale, ma forse non è un termine giusto. Sta diventando un po’ un marchio, quello della Apulia Film Commission, che farebbero bene a rivedere, per non dover per forza cavalcare l’onda delle commedie pugliesi.
Detto questo, il panorama del cinema italiano degli esordi quest’anno non era esaltante, lo si vede anche da quello che era presente qui alla Mostra: al di là del film di Alhaique, Senza nessuna pietà, c’era il nostro film, e poi nient’altro, quindi almeno numericamente qualcosa vorrà dire.
Anche perché l’impressione è che le direzioni prese siano sempre le stesse: le commedie o documentari spesso abbastanza improvvisati, in cui il codice documentaristico viene visto come trampolino per arrivare a dirigere una fiction, ma senza un’idea forte di fondo.
Francesco Di Pace: È difficile trovare un esordiente che faccia un documentario lungo che possegga una forte qualità. Noi per anni non abbiamo inserito documentari in concorso, non perché ce lo precludessimo a priori, ma perché è difficile che un esordiente debutti con un documentario che abbia delle qualità cinematografiche di rilievo. Si fanno tanti documentari un po’ improvvisati, che a volte hanno la durata televisiva e a volte no, ma senza nessun motivo che li distingua uno dall’altro, sembrano soltanto dei documentari televisivi lunghi, nulla di più. Quest’anno il film di Ivan Gergolet ci sembrava avesse caratteristiche diverse, e che fosse un film che ambisse a raccontare anche un po’ il cinema e che facesse riferimento a delle forme di cinema nella stessa materia che trattava e cioè la danza, il movimento, il corpo, la parola, la cantilena, la messa in scena di una protagonista che attraversava gli spazi…
Tra l’altro Dancing with Maria inizia con un piano sequenza…
Francesco Di Pace: Un piano sequenza molto bello, di lei che attraversa questi spazi e li fa vivere, e fa vivere le persone inanimate, un momento molto bello e con un grande impatto emotivo, coinvolgente per il pubblico. Non è stata certo una scelta di ripiego: Alhaique non l’avevo neanche visto, è andato direttamente a Orizzonti.
La Settimana della Critica di Venezia è l’unica “Sic” a livello europeo a occuparsi unicamente di opere prime. A Cannes arrivano le opere prime e seconde, a Locarno selezionano solo documentari. Torino, per rimanere in Italia, apre il suo concorso alle opere prime, seconde e terze. È interessante come scelta, perché da un certo punto di vista è più radicale, e presuppone probabilmente anche più difficoltà: è una scelta che vi gratifica in pieno?
Francesco Di Pace: Ti svelo una cosa: questa decisione di farla diventare una sezione dedicata solo alle opere prime ci venne suggerita proprio da Barbera, in un anno in cui era lui a dirigere Venezia e io facevo parte della commissione di selezione di una Settimana diretta da Andrea Martini. È che secondo me Alberto si poneva già il problema della sua seconda sezione competitiva, che all’epoca non mi ricordo come si chiamava…
Cinema del Presente…
Francesco Di Pace: Già. Ci chiamò e ci propose di occuparci solo di opere prime, anche per poter differenziare un po’ di più la Settimana della Critica, visto che all’epoca non esistevano le Giornate degli Autori e che quindi la SIC era l’unica sezione che poteva essere concorrente a Cinema del Presente. Fu un consiglio che all’epoca Andrea accolse, lo reputò positivo. Io mi ricordo che ne parlammo, e ci dicemmo favorevoli. Dopo di che poi il tutto è proseguito così, e quando ho ereditato la SIC non abbiamo, noi e il Sindacato Critici, minimamente pensato all’idea di cambiarne le caratteristiche perché è una scelta che a me personalmente piace molto. A mio parere contraddistingue la nostra selezione rispetto a tante sezioni o a tanti festival che si dedicano un po’ a questo e un po’ a quest’altro, un po’ alle opere prime, un po’ alle seconde, un po’ alle terze, e quindi mi piaceva l’idea di essere l’unica sezione che in questi festival si occupa di esordi, adatta quindi a scoprire i nuovi talenti. Detto questo, c’è anche una ragione pratica: poiché si produce molto di più rispetto agli anni passati, la scrematura, sulla selezione di opere prime e seconde, diventerebbe un lavoro immane che necessiterebbe di molto più tempo. Ognuno di coloro che lavora alla Settimana ha un lavoro, ognuno di noi ha degli impegni e deve ritagliarsi del tempo all’interno di ferie, permessi e possibilità varie. Se adesso dovessimo trasformare la Settimana della Critica in opere prime e seconde, dovrei mettermi in aspettativa per sei mesi dal mio lavoro perché non ce la potrei mai fare! Questo però ve la segnalo come ultima piccola motivazione. Rivendico infatti in pieno la scelta soprattutto da un punto di vista di senso, come cosa che a noi interessa fare, e come strada che al Sindacato interessa percorrere.
L’anno prossimo la Sic festeggerà il suo trentesimo compleanno, l’undicesimo vissuto sotto la tua gestione. Come vedi il tuo contributo all’interno di questi trent’anni, e in che modo celebrerete l’evento?
Francesco Di Pace: Il mio contributo non ve lo dico, non ve lo so dire, nel senso che veramente non sta a me dirlo. Io credo di aver fatto un discreto lavoro rispetto al passato, ma ho un buon ricordo anche delle annate di Andrea Martini, in un’epoca diversa dove ad esempio non c’erano le Giornate degli Autori. Questi ultimi sono stati anni un po’ difficili, perché c’è stata a volte una concorrenza accanita con la quale io e i miei collaboratori abbiamo dovuto confrontarci. Lo chiedo più a voi qual è stato il mio contributo e come sono state le ultime annate della Settimana. Per quanto riguarda la trentesima edizione vorremmo fare qualcosa, ovviamente, anche se purtroppo lottiamo contro una situazione economica abbastanza disperata.
Siamo alla ricerca continua di sponsor nuovi, che intervengano per renderci il lavoro un po’ più agevole, e veramente facciamo questa Settimana con enormi sacrifici, con una struttura ridottissima di persone che lavorano per poco o niente, e solo la passione e la dedizione ci stanno portando dei buoni risultati. Se riuscissimo a trovare almeno uno sponsor in più ciò ci consentirebbe di riqualificare l’immagine della Settimana: le Giornate ad esempio hanno la villa, Orizzonti si giova del supporto della Mostra, noi veramente facciamo un po’ di fatica, anche se va detto che bene o male il nostro prestigio ce lo siamo costruiti lo stesso anche con poco e niente. Per festeggiare i trent’anni vorremmo invitare i registi che hanno fatto la storia delle nostre Settimane e questo non possiamo pretendere di averlo dalla Mostra, che già ci paga le ospitalità dei nostri registi in concorso, e quindi forse avremmo bisogno di uno sponsor, che ci copra le spese di viaggio per i registi che vorremmo far venire… Tutto è ancora in una fase di organizzazione, ma qualcosa ovviamente vorremmo fare; celebrare le scoperte della Settimana in questi anni, restaurare un film e magari siglare un accordo con Venezia Classici per restaurare un film del passato e proiettarlo. È ancora tutto in fase di elaborazione, abbiamo una riunione a ottobre, vediamo di pensare per tempo all’evento. Però sicuramente qualcosa faremo.
Guardando a ritroso nel tempo si nota che la Sic ha vissuto edizioni che non prevedevano un premio, mentre ora c’è il riconoscimento del pubblico…
Francesco Di Pace: Avete fatto bene a chiedere del premio, perché ne stiamo dibattendo e ne abbiamo dibattuto. Andiamo direttamente al “post-scissione”, perché ci sono stati un paio di anni in cui – come forse ricordate – la Settimana uscì fuori dalla Mostra, con esiti abbastanza disastrosi, perché il Sindacato si accollò delle spese pazzesche che lo hanno portato sull’orlo del fallimento; poi il Sindacato è rinato con Bruno Torri presidente, si sono rimessi i conti a posto, e da quel momento la Settimana ha cominciato a concepire un premio. Nei primi anni si accavallarono un paio di sponsor e con questi si fece un premio con una giuria. Un’idea che non mi dispiace, se si tratta di una giuria “tecnica”, che ha più senso secondo me rispetto a una giuria di critici, che già creano di fatto la Sic. Invece una giuria più o meno internazionale, con tre persone appartenenti a tre categorie diverse di cinema, la ritengo una buona idea. Un’idea però costosa, perché dovevi far venire queste persone, pagar loro viaggio e soggiorno, ed è per quello che era previsto uno sponsor. Poi questo sponsor è venuto meno, e abbiamo avuto difficoltà a trovare una giuria. I primi anni ci siamo adattati a trovare una giuria di critici che erano presenti qui a Venezia, di modo tale che potessero ammortizzare le nostre spese, però poi ci venne l’idea di rendere giuria direttamente il pubblico. Con quali vantaggi e quali svantaggi? I vantaggi ve li ho già detti: è una giuria a costo zero, ed è una giuria che ha un senso, perché ti da il polso di quali film possano piacere al pubblico. Un piccolo svantaggio sta nel fatto che in alcuni casi i film italiani vengono leggermente avvantaggiati da questa cosa, ma perché? Forse perché siamo in Italia. Quando vai a Panorama a Berlino, i film tedeschi non vengono avvantaggiati… Con questo non voglio dire che Zoran l’anno scorso abbia vinto perché aveva in sala la claque, visto che il film di Oleotto ha vinto con uno scarto molto ampio nei confronti del secondo, e avrebbe trionfato in ogni caso. E quest’anno lo stesso Dancing with Maria ha avuto dei voti molto alti ma è stato superato alla fine dall’ultimo film in concorso, No One’s Child. Quindi in ogni caso alla fine una certa giustezza dei rapporti nei voti la riesci a recuperare e trionfa il film che doveva trionfare. I rischi ci sono sempre in questi casi, ma si possono ridurre al minimo senza troppi problemi.