Il villaggio di cartone

Il villaggio di cartone

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Unico titolo italiano della selezione ufficiale di Venezia 2011 capace di ergersi sopra l’aurea mediocritas della nostra produzione, Il villaggio di cartone è il film di un grande autore, Ermanno Olmi, che ricorre al simbolismo per continuare a parlare del reale.

La prova d’orchestra di Ermanno

Come un mucchio di stracci buttato là, sui gradini dell’altare. È il vecchio Prete, per tanti anni parroco in quella chiesa che ora non serve più e viene dismessa. Gli operai staccano dalle pareti i quadri dei santi e ogni altro addobbo, e mettono al sicuro gli oggetti sacri più preziosi dentro cofani speciali. Un lungo braccio meccanico stacca il grande crocefisso a grandezza d’uomo appeso alla cuspide sopra l’altare per calarlo a terra come uno sconfitto. È inutile opporsi: nulla potrà fermare il corso degli eventi che l’incalzare delle nuove realtà impongono alla storia… [sinossi]

Nel rifiuto del realismo e nell’assunzione del linguaggio dei simboli che caratterizza l’ultimo cinema di Ermanno Olmi – e che probabilmente ne Il villaggio di cartone trova il suo punto di arrivo – non c’è semplicemente la deviazione di un percorso stilistico o, peggio ancora, il distacco dello sguardo del regista bergamasco da ciò che lo circonda. Tutt’altro. C’è anzi la prova di una vocazione e la testimonianza di un’impossibilità.
La vocazione di un autore che vuole continuare a parlare del reale, ma che non può più farlo utilizzando una forma diretta di rappresentazione come è appunto il realismo. Il ricorso a un simbolismo didascalico dunque, più che mutare l’atteggiamento di Olmi nei confronti della Realtà, lo muta nei confronti della sua rappresentazione. Dicendoci anche molto sulla sua rappresentabilità nell’Italia contemporanea. Facendo trapelare, tra le righe, che la rappresentazione del Reale non è più possibile direttamente, che bisogna mediarla, trasfigurarla nel simbolo. Almeno non ora e non (più) qui.
Il villaggio di cartone insomma è contemporaneamente l’affermazione di una necessità (quella dell’autore che vuole continuare a esprimersi, nonostante tutto) e la verifica di una sconfitta (quella del linguaggio del reale). Un film il cui merito più grande, sovrarappresentativo, sta nell’esprimere i disagi estetici – oltre quelli etici – dell’Italia di oggi.

Tutta la vicenda si svolge in un unico ambiente, lo spazio chiuso di una chiesa in via di dismissione da cui la macchina da presa non esce mai. Uno spazio impermeabile alle sollecitazioni dell’esterno, accogliente, e che dunque non diventa mai claustrofobico. Qui la vicenda di un anziano sacerdote e del suo sacrestano s’incrocia con quella di un gruppo di extracomunitari africani in fuga, che trova rifugio nella chiesa dismessa di cui l’uomo è stato parroco. Un gruppo di clandestini disperati e braccati, che in questo spazio diventano semplicemente ospiti, come sottolinea il vecchio prete. Prima di ricordare come “proprio quando la carità è a rischio, quello è il momento della carità”. È così che viene loro concesso di ripararsi dalle aggressioni dell’esterno, permettendogli di costruire all’interno della chiesa un piccolo “villaggio”, realizzato sbrigativamente con vecchi cartelloni e drappi consumati, prima che un’irruzione della polizia lo abbatta definitivamente. Due storie che s’incrociano dunque, ma che sono fatalmente destinate a dividersi ancora. E uno spazio che si arricchisce di nuova luce, che si rinnova, che si pone in antitesi al mondo esterno da cui arrivano solo aggressioni. Quella de Il villaggio di cartone è una storia semplice da raccontare. Una storia antica.

Forse per questo tutto sembra costruito come un apologo in cui a ogni simbolo non può che succederne un altro. Un crocifisso tirato via dal braccio meccanico di una ruspa, la chiesa dismessa come rifugio, i muri denudati dagli orpelli che riprendono Vita, una donna con bambino alla maniera di Giovanni Bellini o di Antonello da Messina, la delazione di un novello Giuda, l’irruzione della polizia come gli emissari di Erode. Al di là dei riferimenti biblici più o meno espliciti (narrativi e iconografici), quella de Il villaggio di cartone è però la storia di un incontro. Non tanto (e non solo) quello tra culture e religioni diverse, quanto quello tra le persone e la loro indecifrabilità, che è poi la bellezza dell’esistenza, il suo intimo segreto (come ricorda l’anziano sacerdote: “Il segreto del Mondo è la persona umana”).
Una riflessione su ciò che è (diventata) l’Italia di oggi attraverso una proposta universale, senza tempo. Che faccia riemergere l’antica radice della carità, che rinnovi una dimensione sacrale disfatta, che sia capace di andare oltre la Fede. Perché “per fare il bene non serve la fede. Il Bene è più della fede”.
Tutto ciò potrebbe apparire come una statica operazione senile, se non fosse che sono proprie le scelte di messinscena operate da Olmi a dinamizzare il discorso. Al quale è funzionale la tensione dialettica tra lo spazio della rappresentazione e il fuori campo, tra l’immagine il suono. Il rapporto tra l’interno e l’esterno infatti è sempre allusivo: i suoni che penetrano nello spazio sono quelle delle sirene, degli spari, delle esplosioni; le (uniche) immagini quelle di una barca naufragata trasmesse dalla tv oppure quelle delle torce o dei fari dei cellulari della polizia che assediano la chiesa. Una costruzione che ricorda, mutatis mutandis, quella del Fellini di Prova d’orchestra. Laddove però la pellicola del 1979 era una “sonorità senza sacralità” (De Vincenti), quella del regista bergamasco diventa una sonorità che genera sacralità, che fa riemergere l’antica concezione del “sacro”, proprio a cominciare dal recupero della sua etimologia (sacer=separato).

Unico titolo italiano presentato nella selezione ufficiale di Venezia 68 capace di ergersi sopra l’aurea mediocritas della produzione nostrana, Il villaggio di cartone è il film di un grande vecchio. Di uno straordinario “direttore d’orchestra” che non vuole arrendersi, che vuole continuare a esprimersi con il linguaggio che sa utilizzare al meglio: quello delle immagini e dei suoni. Consapevole che, come recita il cartello che chiude il film, “O noi cambiamo il corso impresso dalla Storia, o sarà la Storia a cambiare noi”. Consapevole che, proprio per questo motivo, l’orchestra deve continuare a provare, trovare nuove armonie. E coprire così le sonorità disturbanti. Lasciandole fuori.

Info
Il trailer di Il villaggio di cartone su Youtube.
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