La felicità è un sistema complesso

La felicità è un sistema complesso

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Commedia sul capitalismo etico, storia d’amore interculturale, messa alla berlina della gerontocrazia imperante. La felicità è un sistema complesso ha numerosi obiettivi, ma non ne centra in pieno nessuno. In Festa Mobile al TFF 2015.

Cerco un centro di gravità

Enrico Giusti avvicina per lavoro dirigenti irresponsabili che rischiano di mandare in rovina le loro imprese. Li frequenta, ne diventa amico e li convince ad andarsene evitando così il fallimento. È il lavoro più strano e utile che potesse inventarsi, ed Enrico non sbaglia un colpo. Una mattina, un incidente rende orfani un fratello e una sorella di diciotto e tredici anni, candidati a diventare dirigenti di un gruppo industriale d’importanza nazionale. Enrico ha l’incarico di impedirlo: dovrebbe essere un caso facile, il coronamento di una carriera, ma tutto si complica. E l’arrivo inatteso della fidanzata straniera di suo fratello rende le cose ancora più difficili. In realtà, sarà il caso che l’uomo aspetta da tempo e che gli permetterà di cambiare le cose per sempre.[sinossi]

La commedia è un sistema complesso, vive dell’equilibrio precario dei suoi ingredienti, come i tempi comici, le situazioni inventive, le variazioni sui suoi temi portanti e spesso mira a presentarci un bozzetto della società in cui nasce più lapidario e ficcante di quanto qualsiasi dramma realistico sia in grado di fare. La realtà è il suo carburante nobile, e al tempo stesso il suo bersaglio. E raccontare la realtà italiana di oggi significa per il nostro cinema parlare sopratutto della crisi economica e della penuria di lavoro. La commedia nera o grottesca sono d’altronde state bandite da tempo; è la dura legge del botteghino che lo ha imposto.

Il talentuoso Gianni Zanasi, dopo l’interessante Non pensarci sogna ora un capitalismo etico, biologico e con sensi di colpa in La felicità è un sistema complesso presentato nella sezione Festa Mobile al 33esimo TFF. Il principale promotore di questa utopia è il suo protagonista, Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) che per lavoro convince manager inetti a rassegnare le dimissioni per salvare così le loro aziende e i relativi posti di lavoro.
Quel che si dice un lavoro socialmente utile insomma, che richiede competenze economiche, psicologiche e persuasive. La situazione per lui si complica quando i due giovani rampolli (diciotto anni lui, tredici circa la sorella) di una ricca famiglia di industriali restano orfani, ereditando così le redini di una multinazionale. A contatto con i due ragazzi, Enrico si ritrova a scoprire pian piano – ma forse quando è già troppo tardi – che le loro idee potrebbero essere migliori di quelle di dirigenti più esperti e, indubbiamente, più anziani. A rendere tutto più instabile nella vita del nostro protagonista ci pensa poi l’arrivo alla sua porta (anzi, proprio dentro casa) della fidanzata israeliana del fratello minore, quest’ultimo non ha infatti il coraggio di liquidare apertamente la ragazza.

Ma Zanasi non si accontenta di accorpare pubblico (il mondo lavorativo) e privato (l’incontro con la ragazza), dramma (il rapporto padre-figlio, la perdita del lavoro) e commedia (equivoci e scontri culturali o generazionali), preferisce continuare a moltiplicare i centri nevralgici del suo film, fino a provocarne il collasso. Anziché raccontarli, il regista allude a una serie di argomenti: la già citata crisi economica, i suicidi plateali per la perdita del lavoro, l’universo frigido delle multinazionali e dei loro CDA, e poi complessi edipici, incontri interculturali, energie e campi elettromagnetici, squali della finanza “etica” sempre pronti a intavolare strani discorsi sulla “purezza” . Ad un certo punto, date le immagini liriche dedicate ad exploit danzanti di adolescenti invasati, pare che il film diventi un atto d’accusa nei confronti della gerontocrazia che caratterizza il nostro sistema economico, così come il mondo del lavoro, la società tutta. Ma anche questo argomento viene presto abbandonato, per passare ad altro, o magari farlo ritornare più tardi per mere ragioni estetiche, senza renderlo lo strumento di una vera critica sociale. Siamo dalle parti di un cinema intermittente, incerto, pieno di idee ma incapace di riporvi sufficiente fiducia. Per cui è sempre meglio stemperare i conflitti con un sinuoso movimento di macchina da presa (si veda la scena del funerale) e chiudere le scene innalzando il volume di una canzonetta pop anglosassone. Ecco, il film di Zanasi lo si trova lì, nell’intervallo tra un brano e l’altro della playlist con cui ha deciso di inondare le nostre orecchie. E a poco valgono gli sforzi di Valerio Mastandrea, che qui si esibisce anche in performance canore e danzerecce, riuscendo a tratti a conservare una sua naturalezza, mentre in altri momenti scivola nel birignao da commedia dell’arte. Deludente poi la performance della deliziosa Hadas Yaron (la protagonista di La sposa promessa e Felix e Meira), tutta occhioni e broncio, incastrata nel ruolo di donna depressa e abbandonata, tanto frequente nel cinema nostrano. E poi, quante inquadrature servono a esprimere sconforto, desolazione o cordoglio? E quanti minuti della pop song prescelta? Zanasi ha probabilmente perso il conto. Ma ha pensato bene di sostituire la scena d’amore con l’immagine dei due protagonisti sospesi sul talamo in assenza di gravità. Registriamo che anche il sesso è stato bandito dalla commedia italiana.

Info
La scheda di La felicità è un sistema complesso sul sito del Torino Film Festival.
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