Enrico Ghezzi: “La verità è il primo inganno”

Enrico Ghezzi: “La verità è il primo inganno”

Verità e finzione, F for Fake. Welles, Ciro Giorgini, Adriano Aprà e la critica. Fuori Orario e le dicotomie Rossellini/Lang, Truffaut/Godard, Lumière/Méliès. Abbiamo intervistato Enrico Ghezzi.

Raffaele Meale: Partiamo direttamente con Fuori Orario, e dalla televisione. Innanzitutto ci puoi raccontare la genesi, il modo in cui nasce Fuori Orario?

Enrico Ghezzi: Fuori Orario nasce in modo piuttosto automatico, e questa parte di parola, auto (auto-nomia, auto-matico) troverà spesso spazio in questa parte di discorso. Posso parlare in modo solo personale, perché degli amici potrei dire solo quello che ci unisce, e sarebbe scarsamente utile. Avevo appena fatto La magnifica ossessione, nel 1985, insieme a Marco Melani, e di alcune cose di avanguardia come Man Ray si era occupato Ciro Giorgini, con il quale non ci conoscevamo da molto. Mi sembra che ci siamo conosciuti nel 1978 o nel ’79…

Alessandro Aniballi: Ma vi eravate conosciuti per l’Officina Filmclub? Avevi proposto una retrospettiva sui tedeschi a Hollywood…

Enrico Ghezzi: No, sono due cose molto diverse. Quella di cui parli tu, “Vienna Berlino Hollywood”, è una cosa che facemmo per una grossa rassegna a Milano con film mai visti fino a quel momento, come quelli di Ulmer del quale, a parte i soliti due o tre, non si era visto nulla. Per me quelli furono i più folgoranti, perché non li conoscevo e li scoprii in quell’occasione. Ma c’era anche Fritz Lang, ovviamente… Dopotutto quello dei tedeschi in America è stato lo streaming più importante della storia del cinema perché, a parte l’elemento politico di fuga, ci sono decine di registi che sono venuti solamente in cerca del cinema. O in cerca di un pubblico per il cinema. [pausa] Loro. Sono pochi quelli come Lang che racconta rocambolescamente la sua fuga… Tra l’altro mi viene in mente che un’operazione simile a quella di William Friedkin con Lang, e uno dei momenti di cinema più appassionanti – e sono contento di aver contribuito a spingere in questa direzione -, è stato il film bellissimo di due anni fa visto a Venezia di Amir Naderi con Arthur Penn. Secondo me è come ritrovarsi di fronte a dei fantasmi. Davvero, altro che mediatori. Per me era una cosa in cui c’entrava Amir, c’entrava Penn, e in Penn c’entrava tutta una derivazione mia… Quando stavo scrivendo il Castoro su Kubrick avevo già firmato anche per quello su Penn, che non finii mai. Anzi, penso che scrissi solo il capitolo primo sull’impossibilità di parlare del cinema, a partire dalla prima sequenza di The Left Handed Gun/Furia selvaggia. Lo dico perché mi sono sentito sempre piuttosto alieno davanti al cinema, che pure amo moltissimo in ogni sua manifestazione, anche perché penso che sia non l’arte per eccellenza, ma la chiusura di tutte le arti. La catastrofe finale, lunghissima, nella quale possiamo giocare molti ruoli, a profitto di chi non so, ma a profitto di qualcuno o di qualcosa. [pausa] Quindi per me il trovarsi non è mai stato trovarsi sul set del cinema o in una sala in cui i membri di un’associazione, per una legge migliore o peggiore, decidono qualcosa. Tutti i set mi sono alieni. Una volta che uno si identifica solo con la dis-identità, quindi senza altro documento che “volere” o “desiderio” ecc., è già cinema. A questo punto andare a parlare con un regista dopo avere assistito a una, due o forse anche tre giornate di lavori può essere interessante come altra storia, come un omicidio commesso da un’attrice. Non c’è bisogno di assistere al set blindato di un film americano per capire che il cinema si ritaglia uno spazio: tutto il mondo è lì, in quel momento, anche in un filmetto banale americano, o un italiano di genere. [pausa] Ho fatto un lungo detour…

Raffaele Meale: Siamo sempre a Fuori Orario

Enrico Ghezzi: Sì, come nasce Fuori Orario. Io penso che ancora non sia nato. Non come volevo farlo. A non farlo nascere hanno contribuito i collaboratori man mano affluiti, in realtà pochissimi dall’inizio: Roberto Turigliatto, Ciro Giorgini… Non che gli altri non mi vengano in mente, non sto facendo uno sforzo, ma sono i due che più hanno contato da un punto di vista di impegno analitico, di responsabilità assunte più o meno volontariamente. Del resto la cosa che mi sembrava più importante in questo lavoro era di mantenere forte l’elemento-gioco, e lasciare tantissimo spazio all’iniziativa personale. Credo che sia stata una cosa che non dico che si veda, ma è ciò che permette alle cose che abbiamo fatto di essere viste, in certi casi superando il nostro stesso desiderio o speranza. Tecnicamente Fuori Orario nasce perché restano moltissime cose dopo la fine di Magnifica ossessione, che non sto a raccontare perché credo che ne abbiate già… Anzi no, devo dire una cosa che credo abbia a che fare con qualcosa che ho letto proprio chez vous, nella vostra intervista a Ciro Giorgini, grandissimo amico e collaboratore. E suscitatore, anche. Per me Ciro più di tutto è stato la trasmissione di un desiderio. Era qualcuno che, quando parlava, a due o di fronte a una platea, era immediatamente epico. In questo incontro Ciro diceva che nel frattempo io ero riuscito a convincere un dirigente… Ma non era questo! Citava un bravo dirigente Rai, Falcone, che era in quota PCI. Io non ero in quota di nessuno, ma da sempre… Ma questo comunque è un dettaglio, fa parte del modo in cui Ciro ricostruiva le memorie, e non ha inciso minimamente. Restava preservato quel discorso sul gioco, nel nostro lavoro, cui facevo cenno prima, perché chi era dentro il progetto sapeva di svolgere un doppio compito, quello di vedere e di essere visto. In qualche modo si ravvivava quel sublime frammento di Democrito “La vita è un palcoscenico. Entri in scena, guardi, e te ne vai”. Una cosa di stupefacente bellezza, ed è bellissimo cercare i contro-sguardi che si possono trovare partendo da questa folgorazione. Sempre pensando a Ciro mi diverte ricordare di quando ci eravamo inventati “Cinema sul fondo”, che ha poi gestito lui. La seconda edizione di Magnifica ossessione, che era settimanale, era raggrumata intorno alla figura di dottor Jekyll e mister Hyde, il soggetto più visto a parte la storia di cristo e altri film di filone religioso. M’ero accorto di questo, che era il soggetto più visto nella storia del cinema. Sempre la doppiezza, dunque, l’alterità, il risultare dentro una galleria di specchi, una linea senza fine, come in Doppia immagine nello spazio di Parrish. C’è anche L’uomo dagli occhi a raggi X che è incentrato su questo. Il cinema secondo me è proprio così, anche quando la storia non include questi elementi. Un po’ come Fuori Orario: c’è, agita tantissime tematiche, ogni film sembra scaturire o far scaturire altre cose. La fine del film è un’illusione, una volta che sali a bordo. Tra l’altro l’ultimo film di Eastwood, Sully, che a me sembra un capolavoro assoluto, è precisissimo su questo, sul rispecchiamento invisibile, perché per sottolinearlo si perde, diventa troppo visibile e sembra non funzionare, un meccanismo identico a quello dell’aereo, con dietro l’11 settembre. Lo trovo un film gigantesco. Piccino ma gigantesco. Fuori Orario nasce dalla presenza di molti materiali che usavamo per “Schegge”: Schegge è stato (non come titolo, ma come azione, come estasi) il bacino di incubazione di Fuori Orario e di Blob. Blob e Fuori Orario sono in effetti coetanei. L’aver accumulato tanti materiali per le due edizioni di Magnifica ossessione e per il primo Fuori Orario, un programma anche demente e imbecille se vogliamo che avevamo prodotto e organizzato a Milano, ci rese evidente che potevamo lavorare ancora a lungo. Anche perché avevamo rubato, è giusto dire così, molti dei ¾ b-view che erano stati riversati dal festival che all’epoca ci assomigliava di più, che era quello di Salsomaggiore, Salso Film, al quale lavoravano Adriano Aprà, Melani, Patrizia Pistagnesi e Donald Ranvaud. Insomma, avevamo molta roba e altra la trovavamo in Rai. Veniva incontro a quel che volevamo fare anche il programma “Vent’anni prima”, sigla che è rimasta attiva fino a poco prima della morte di Ciro: l’esempio più triste, in un certo senso, sulla non riuscita, ma solo perché era il più radicale, il più di lunga visione su ciò che avveniva intorno. Era fortissimo come disillusione, come allontanamento dalla realtà, pur cercandola. Qualcosa di pazzesco per la televisione. Vedere un anno di vent’anni prima, dove tutti i giorni vedevi i tg della giornata corrispondente, era strabiliante. Uno dei primi modi di rispondere allo sguardo di Democrito di cui parlavo prima. I lenti giornalisti di un tempo, con un ritmo lentissimo, dove i momenti più tragici della guerra del Vietnam non erano i filmati in bianco e nero, ma gli uomini che leggevano i comunicati. Bastava far lavorare queste immagini per trovarsi all’interno di un meccanismo a più lenti, a più posizioni. L’idea di arrivare a Blob da Fuori Orario fu anche dello stesso Guglielmi [Angelo Guglielmi, direttore di RaiTre dal 1987 al 1994, n.d.r.], che mi parlò di una “cosa molto bellina su Il Manifesto”, che non ricordo cosa fosse ma non era molto bellina. Era semplicemente il meglio del giorno prima, cosa che per di più facevano diversi giornali. Io mi portavo dentro la voglia di fare qualcosa come Blob da quando avevo vinto il concorso per la Rai di Genova come programmista/regista, l’ultimo concorso fatto in Rai, l’ultima leva. Il modo per farlo venne fuori da una doppia mancanza: l’essere rigida, mancare di frizzantezza, della situazione “Vent’anni prima”, e il voler uscire da questo esempio iniziale di Fuori Orario. L’esempio di un programma folle, con cose inverosimili o troppo verosimili, come Giovanni Emilio Simonetti che raccontava le cucine delle grandi dinastie storiche; mi ricordo la penultima puntata, che era sull’uso dell’oro nelle feste, e tutti in studio abbiamo mangiato delle sfoglie d’oro. C’era un bravissimo cronista della cronaca notturna di Milano, c’era Elvio Fachinelli presente in ogni puntata, Milo Manara che mandava i primi fax mai visti in uno studio Rai. E soprattutto c’era la diretta, che sembrava inutile ed era invece la cosa più bella; da questa prima catastrofe sono rimasto affezionato alla diretta. L’ho detto parecchie volte: secondo me la scelta più forte di Fuori Orario era rischiare la mancanza di conduzione, che era piuttosto evidente. Ripartire da Fuori Orario, utilizzando lo stesso nome, era una scelta che considerava già ogni momento aperto alla diretta. La trasmissione di un film è già diretta, perché nella messa in onda accadeva di tutto: in cinque anni avevo già repertoriato almeno dieci casi in cui la pellicola nella macchina si rompeva e si riavvolgeva. Un esempio puro di diretta, catastrofica e immediata. Il primo Fuori Orario è stato chiuso dall’oggi al domani secondo il primo modello perché in una puntata molto bella, una delle meno brutte, c’era Cicciolina in un lungo set fotografico di Guido Harari – un fotografo che tutt’ora si occupa di rock – su Polaroid, e a un certo punto lei accavallava le gambe. Guglielmi chiamato immediatamente da Biagio Agnes: “Il programma deve chiudere”. Guglielmi decide di garantire che non sarebbe più successa una cosa simile, ma ovviamente perché questo fosse vero il programma doveva essere visto prima. Ci furono altre sei o sette puntate, e poco per volta riguadagnammo una piccola cornice in diretta. Ricordo che nell’ultima puntata c’era Carlo Freccero in collegamento da Parigi, dove aveva fatto per La Cinq un programma di materiali trovati sul maggio del ’68, con il quale però parlammo esclusivamente di Gullit e Van Basten, e del famoso acquisto doppio. Il repertorio era diventato il punto centrale, e c’era una sorta di fiducia eccessiva nel rendere possibile una pallida mimesi del repertorio, qualcosa di già registrato. È così anche adesso. Il più comodo dei corpi registrati era il cinema, i film, che era la cosa che amavamo di più. Diventava bulimico anche il senso. Non c’era nulla di accademico alle spalle. Quando parlo di questo, tocco quello che secondo me è il punto principale, il rispetto anche sanguinoso della possibilità di mandare all’infinito lo stesso film. Che è poi quello che secondo me è avvenuto. Sono portato a vedere quel che abbiamo fatto con Blob e Fuori Orario non come una sorta di film, ma proprio come un film. Il modo giusto di vederlo adesso sarebbe proiettarlo tutto. Con Fuori Orario sarà difficile, per un problema lampante di diritti, ma con Blob – che sono più di cinque mesi di durata – stiamo pensando di fare al Beaubourg proprio questo, mandare tutto Blob comprese le ripetizioni, le puntate simili e via discorrendo. Forse si farà, prima o poi. E credo che quello sia un grande film, come è un film le quaranta ore di Magnifica ossessione, e anche ovviamente Fuori Orario. Dico ovviamente perché la cosa migliore per raggiungere l’obiettivo è il cinema, con Blob e i suoi codici comici ogni tanto ti dimentichi di chiederti cosa stai vedendo e perché. Fuori Orario esordì in maniera del tutto improvvisata, il contrario dell’idea che probabilmente si ha ora di qualcosa di molto preordinato, deciso a tavolino. Fu mandato in onda tre giorni dopo che si era deciso di farlo. La linea libertaria di Guglielmi prevedeva che le dirette importanti durassero quel che dovevano durare, e così il primo programma di Michele Santoro sforava quasi sempre, e serviva un programma pronto ad adattarsi a questo. Solo che significava andare in onda una volta dopo un’ora, una volta dopo un’ora e mezza. A volte sapevamo all’ultimo momento se avevamo spazio in testa o coda. All’inizio pensai che avremmo lavorato come con Schegge, preparando dei bottiglioni che potevamo poi usare al momento opportuno, ma non fu possibile per un motivo tecnico, e quindi politico: i tecnici non potevano improvvisare. Io ci ho provato fino alla fine, ancora l’anno scorso, ma non è mai stato possibile. [pausa] Certo che ne ho fatte di deviazioni…

Alessandro Aniballi: Parlavi di come risolvere il “problema Santoro”.

Enrico Ghezzi: Mi ricordo benissimo la prima puntata, che era di venticinque/quaranta minuti, e c’era The Battle of Midway di John Ford chiesto al consolato, all’Usis, e prontamente consegnato, contro ogni previsione. Poi c’era un set intero della partita di pallavolo Iran-Iraq, che erano in guerra in quel momento. Poi c’era una piccola antologia di inizi di film, in uno c’era la scena che è stata in ballo fino all’ultimo per essere la sigla; era la sequenza di Secondo amore di Douglas Sirk nella quale Jane Wyman riceve in regalo per Natale un grande televisore dal figlio. La fine della scena, con lei fortemente turbata perché il figlio le spiega che potrebbe esplodere tutto, è su lei che accende il televisore e si vede un lampo. Avevo poi visto dei concerti di Patti Smith a Bologna e Firenze, nell’ultimo grande trionfo che coincise con la prima grande caduta: “Because the Night” mi sembrava ovvio come titolo. Comunque alla fine della seconda puntata arriviamo alla fine con fatica e come sigla abbiamo deciso di mettere di nuovo Patti Smith. E da allora è stata sempre usata.

Alessandro Aniballi: Ma da subito avete pensato a L’Atalante?

Enrico Ghezzi: Sì. Nel caso l’avremmo modificata con Secondo amore.

Alessandro Aniballi: Ma quindi all’inizio Fuori Orario non durava tutta la notte?

Enrico Ghezzi: No. All’inizio c’era una puntata a settimana che poteva durare dai cinque ai cento minuti. Ancora aggiustabile al volo, pur con molta fatica. Lì Ciro si occupava di repertorio televisivo. La prima puntata la montammo Ciro e io. Con Guglielmi la cosa bella è stata la totale autonomia, e la spesa dell’esserci, del puntare su una situazione anarchica. Guglielmi la capiva, anche se la cosa lo preoccupava. Il regista non mi piaceva, un ragazzo giovane che è diventato un videasta tra i primi, che era però attento solo al controllo camera, al colore dei vestiti. Questo riduceva la nostra idea, che era quella di creare un covo di avanguardisti. Era un regista pubblicitario.

Raffaele Meale: Non ti ricordi il nome?

Enrico Ghezzi: No. Una volta guadagnata tutta la notte, abbiamo accettato l’idea della durata, in sé vuota, che poteva essere sfruttata in ogni modo. Per esempio abbiamo fatto le notti dei Pubblivori. Un programma che si denunciava da solo, come anche Blob, e infatti non esiste un programma come quello, in tutta Europa. Esplosione e rovesciamento della membrana tra televisione e cinema. Non è una spiegazione della realtà, come invece viene spesso letto. Il tentativo principale di sabotare Blob fu quello di promettere la seconda serata. Ho sempre rifiutato. Volevamo l’autonomia di andare ogni giorno alle otto, e di essere quindi virtualmente incontrollabili. Eravamo auto-sabotatori dentro il meccanismo televisivo.

Raffaele Meale: In qualche modo c’è la sublimazione de La verifica incerta di Grifi/Baruchello…

Enrico Ghezzi: La verifica incerta è già troppo controllata. Ogni volta cedo a rivederla, e mi sembra sempre narrativamente ricca e sempre diversa. Resta uno dei titoli che ho utilizzato più spesso. Blob era una “verifica incerta”. Fuori Orario si scopre come “verifica incerta”, e lo abbiamo mandato più volte in onda. Lavoravamo e giocavamo su un concetto concettuale solo alla lontana [lunga pausa]… Parecchie volte mi sono sorpreso a rendermi conto di come un film che passavamo a Fuori Orario mi sembrasse diverso in quel contesto, lontano da come lo ricordavo o lo avevo appena ri-visto. L’allucinazione del rivedere. Quello che unisce tutti questi programmi che ho avuto il (dis)piacere di produrre, dirigere o ispirare, era il concetto della ripetizione, evidente anche nei momenti più sorgivi. La seconda volta. Sei quello che attraversa il palcoscenico e se ne va, ma sei anche il suo opposto, perché sei tu a creare quella situazione.

Alessandro Aniballi: Questo discorso sulla ripetizione ci porta a una domanda di natura storica, diciamo. Fuori Orario nasce quando la fase dei cineclub viene meno. Lo vedi come un passaggio di testimone?

Enrico Ghezzi: Io ho sempre avuto molti dubbi sul cineclubbismo. La cinefilia è un discorso molto più ampio, e grazie alla nostalgia non può non avere senso. Ma l’epica dei cineclub mi era molto estranea. Il cineclub più bello d’Italia era Filmstoria a Genova, dove c’erano la Sala Ford che proiettava solo in 16mm e la Sala DeMille. Ma la differenza tra le due sale era solo nei formati: potevi trovare una cosa sui corti della scuola di Monaco e poi trovavi tutto Olmi, oppure venti film di Ford, Allan Dwan visto e rivisto. Godeva delle copie che arrivavano con le navi, che erano spesso bellissime ma in bianco e nero perché costavano di meno. Alla fine leggevi “technicolor” e ti chiedevi come fosse possibile. Mi è capitato proprio pochi giorni fa con un film che abbiamo anche mandato due o tre volte, Nel mar dei Caraibi di Frank Borzage, che neanche riuscivo a riconoscere. C’era follia in quel tipo di programmazione, diversamente dagli altri cineclub. Io sono sempre per “cose (mai) viste”, però tra parentesi. La parentesi è fondamentale. Non c’è mai stato dialogo tra i cineclub. Aprà per esempio era molto legato al Filmstudio, che aveva una politica a metà tra Warhol e le nuovelle vague europee, felicemente responsabili del lancio di Moretti che sono convinto che in un’altra città avrebbe fatto un percorso completamente diverso, perché aveva condensato alcune cose che giravano a Roma nella sua generazione. C’era un solo club che accettava la nostalgia del presente, ed era “L’occhio, l’orecchio, la bocca”, qui a Roma. Gianni Romoli è stata una delle mie più grandi delusioni della vita cinefila, perché – dopo l’esperienza dei cineclub – trovarlo co-sceneggiatore dei film di Ozpetek è stato un brutto colpo. La cronologia va, ma il passaggio dai club a noi non è così meccanico. Lo dico perché da inventore di Fuori Orario noi eravamo già su quella linea, e non perché fossimo più intelligenti. Andavo a vedere Il mago di Oz se c’era una buona copia, ma andare a fare pubblicità porta a porta per portare gente in sala a vederlo e quindi inflazionandolo mi sembrava troppo facile. Ma rispettavo queste cose.

Alessandro Aniballi: Hai citato Aprà, con cui hai lavorato insieme anche per Salso…

Enrico Ghezzi: Sì, mi convinse Marco Melani. Io ero poco convinto, anche perché sapevo che Adriano con un certo dispiacere non vedeva i film che proiettavano. Si accontentava dei giudizi degli altri. C’erano film belli, ma anche altri informi e anonimi. Ci offrì uno spazio in cui io e Marco facemmo due volte la proiezione di Magnifica ossessione; ci fu poi la famosa annata-Godard con Bernardo Bertolucci che poi lo premia a Venezia nella strepitosa tripletta di Prenom Carmen. In giuria anche Oshima e Peter Handke. Me lo ricordo perché trovavo sempre delle ragazze in attesa fuori dal bagno degli uomini all’ultimo piano dell’Excelsior che pensavano fossi Handke. Non ho mai approfittato della situazione. Basterebbe questo a farci strillare di stupore rispetto a tutti gli altri festival, ma questa è stata la più grande giuria mai fatta, e l’ha fatta Gian Luigi Rondi. Ci tengo a dirlo perché, salvo una cosa di Silvestri, bella ma che sembrava dovuta al fatto che lui aveva lavorato con Rondi, nessuno ha detto nulla quando è morto alcuni mesi fa. I film più belli di Bernardo degli ultimi anni sono anche i titoli dei film che lui ha premiato nelle giurie, perché oltre al trionfo di Godard che era in realtà un grido di dolore per la perdita della Nouvelle Vague c’è anche la vittoria di Lynch a Cannes con Cuore selvaggio. Bernardo è il più grande regista di giurie che sia mai esistito.

Alessandro Aniballi: Ma di recente ha premiato anche Sacro GRA, giusto?

Enrico Ghezzi: Sì, vero.

Alessandro Aniballi: E sei d’accordo anche su questo?

Enrico Ghezzi: No. [pausa] Ma senza cattiveria. [pausa] Immagino che vi piaccia…

Alessandro Aniballi: A me non tanto.
Raffaele Meale: Io sono più favorevole. Non lo vedo così tragico.

Enrico Ghezzi: No, no, non è tragico, anzi. Però lo vedo come un segno. Lo leggo, il cinema di Gianfranco Rosi, insieme a La grande bellezza, sulla linea che chiamo del post-realismo magico. Mi sembra che un po’ ci azzecchi…

Raffaele Meale: Sì, perché ti volevamo chiedere di Aprà, quali sono le distanze e quali le vicinanze.

Enrico Ghezzi: Ah, già. Aprà. Le distanze sono che… Mi sembrava che si sprecasse nel piccolo conflitto quotidiano cinefilo. E allora pensavo che fosse una mia irritazione banale rispetto a questo. Certe cose avrebbe dovuto farle lui, secondo me, rischiando di avere meno potere. Però doveva farle lui perché spesso era lui che le cercava, lui che le trovava, da Andy Warhol al cinema giapponese. Mi ricordo l’impressione dei film di Wakamatsu, che non si erano mai visti in Italia, mentre in Europa un po’ di più, e lui sapeva raccontare benissimo quelle cose. Mi piace molto se qualcuno, parlando di cinema, magari anche dicendo benissimo di un film di merda, riesce a fare una presentazione di questa cosa che sia anche una forma di reinvenzione, un racconto bello ed efficace. Il racconto del cinema per me è questo: come si è manifestato, dove si è manifestato, cioè nella testa, nella mente, nel corpo. In questo io imputo ad Aprà, che però è il migliore di tutti, gli imputo una sorta di paura, di ritrosia…non di vigliaccheria, ma di timidità. C’è stato un momento in cui poteva fare molto, ha lavorato anche un anno in RAI al posto che poi occupavo io, quello di programmazione cinema di Raitre, e mi ricordo che quando io trovavo dei cataloghi mirabolanti, quello dove c’era dentro Detour per esempio, che era tra l’altro un catalogo con molti fuori diritti, che molti ci proponevano e sarà stato venduto due o tre volte, perché non c’erano i documenti. E lui allora diceva: “No, voglio vedere i documenti”. Poi diceva che “sì, Detour è un film notevole”, con quel suo tono un po’ burbanzoso come a volte è lui. Però ecco la passione che lui metteva e che usciva fuori anche dalla sua freddezza mi piaceva molto. Dal punto di vista della cinefilia, della retrospettiva cinefila, ovvero cosa fare con i film, come mangiarli, come farsene contagiare, aveva tutte le possibilità di farlo, però è sempre stato come pauroso di accedere fino in fondo, o di eccedere.

Raffaele Meale: Qual è il tuo giudizio invece sulla proposta di cui ci ha parlato lui nell’intervista che gli abbiamo fatto, a proposito dei critofilm, dove dice che sono il futuro della critica, e che poi ha mostrato al festival di Pesaro? Io sono molto dubbioso.

Enrico Ghezzi: Anche io sono dubbioso. Lui riesce a trasformare in entusiasmo la delusione che noi avremo vedendo la cosa e che lui ha, e quindi è costretto per questo a costruire un castello di ideologie. I critofilm sono un auto-accecamento, li faceva Maurizio Ponzi, mentre faceva i primi film, I visionari (1968), poi Equinozio (1971). Mah! [pausa] Credo che il suo entusiasmo per i DVD derivi dal fatto che c’era dentro un po’ più di spazio da occupare. Infatti per quell’aspetto lì il DVD si è affermato come proiezione ideologica di un sogno totalitario di poter fare tutto, che è stato perso regolarmente. È salito a bordo di una cosa che gli ha permesso di lavorare su dei progetti recintati molto precisi, piccoli, a volte pregevoli. Comunque delle cose che dice belle ci sono sempre, però è come se il DVD non l’avesse toccato e come se lui non sia riuscito a toccarlo.

Alessandro Aniballi: Ma secondo te – che era la domanda che facevamo ad Aprà a cui ci ha risposto con i critofilm – ha ancora senso la critica cinematografica?

Enrico Ghezzi: La critica cinematografica non ha mai avuto senso. Bisogna mettersi di fronte alla morte attraverso la durata, per godere bisogna accecarsi. Non è facile. Se trovo qualcuno che a venticinque anni non ha visto almeno trenta titoli che dovrebbe aver visto, non li recupererà più. Nel senso che li recupererà come un classico latino che dopo gli esami per curiosità ha preso in mano, ma non è quello il cinema. Se non ci butti del tempo, perdi lo spazio-cinema che è uno spazio inghiottente… Tirarlo dentro nel tempo, accendere la TV o qualcosa, vederlo, ha a che vedere con il gioco di carte, tutte cose rispettabili, belle, tutte cose di godimento, ma il godimento-cinema secondo me non è lì. È nel sentire la ripetizione che c’è in ogni film, che per ora è la dannazione del cinema. Poi chissà.

Raffaele Meale: Ma la critica scritta invece?

Enrico Ghezzi: Mah, la critica scritta la do per ultima. Però la critica scritta in un confronto di codici si è manifestata come la più interessante, perché è un codice molto preciso quello della scrittura, rispetto a quello che può essere appunto un critofilm. Cos’è un critofilm? Tu prendi un Giorgione e lo paragoni ad altri nudi… Cos’è? In questo senso, senza vanto, Fuori Orario è un programma che è un critofilm dall’inizio alla fine e l’importante è che sia dall’inizio alla fine senza finire. Se non si è disposti al senza fine, che poi è il fine perché il fine è morte, non si è attrezzati sin dall’inizio, si perderà qualcosa di essenziale, senza saperlo. E quello che domina diventa una sorta di ideologia dell’analisi…mentre è molto più interessante l’analisi dell’ideologia. Mi ricordo una serata triste da Bernardo Bertolucci, in cui alla fine Adriano che era stato incaricato di una cosa sugli anni Cinquanta/Sessanta del cinema italiano, il cinema di genere, a un certo punto si infervorò. Io ero insieme a Marco Melani, e c’era anche la moglie di Bernardo. Adriano cominciò a fare un discorso di quelli suoi lunghi interminabili, per dire che aveva scoperto i film di Giorgio Bianchi. “Ci son delle cose geniali”, diceva. E ci guardammo io e Marco Melani, mentre Bernardo assisteva. Poi Marco ha insistito e ha detto: “Ma se li abbiamo fatti vedere tutti a Fuori Orario! Se n’è occupato Sergio Germani, che li ha fatti vedere anche a Trieste!” Adriano si ammutolì. Poi, dopo una mezz’ora, gli venne una gran cosa di stomaco, perché aveva anche bevuto… Una specie di agnizione finale della critica.

Alessandro Aniballi: Se per Aprà hai parlato di mancanza dell’eccedere, una persona che ha ecceduto nelle sue passioni è stata invece Ciro Giorgini. Cosa ricordi dei primi anni Novanta, quando Ciro – come ci ha raccontato – venne preso da una ossessione per le diverse versioni di Mr. Arkadin/Rapporto Confidenziale?

Enrico Ghezzi: Ricordo di averlo seguito da vicino, perché tutto il lavoro su Welles – insieme a Ciro e a Melani – è stato nei primi tempi incrostato da varie partecipazioni in modi vari. Marco lavorò moltissimo su L’infernale Quinlan. Mettemmo insieme una copia, la versione corretta secondo Jonathan Rosenbaum, che però nessuno aveva mai visto e nessuno aveva ancora fatto. L’abbiamo fatta sempre artigianalmente, da tv privata. Poi in un altro momento abbiamo saputo per telefono dell’incidente a Paola Mori, la moglie di Welles, proprio poco dopo che era successo. Beh, Welles per Ciro era chiaramente un alter-ego. Ci metteva fin troppa ideologia, lui che era un narratore. Continuo a pensare che Ciro sia stato un grande ri-narratore di ri-cinema. Era così anche il gioco su Arkadin, che è bellissimo ancora, l’ho rivisto a New York l’anno scorso, è bellissimo, con tutti i suoi buchi, con tutte le sue presunzioni, bellissimo. Però era una cosa, questa del lavoro fatto su Arkadin, che gli serviva a coprire il non-finire invece che prenderlo come un dono. Anche se poi era lui, Ciro, che regalava il non-visto, il non ancora visto. Lui, al contrario di Aprà, era molto generoso nel fare il trapassatore, l’attraversatore, il barcaiolo. Per me basterebbe a definire Ciro Giorgini non tutto Welles, ma tutto il cinema che è dentro alla scena del cinema del Don Chisciotte. Basta quello. C’è tutto lì. C’è tutto il cinema come situazione fisica, è anche una sorta di documentario sullo stato del cinema e sullo stato dei diversi spettatori al cinema, molto preciso, molto sociologico, molto potente. Fin quasi meccanico, ma questo è il problema di Welles. Il problema dei film fatti come voleva lui. L’unico e a stento è Quarto potere/Citizen Kane, ma già con delle falle. Quarto potere è il film che lui riesce a fare, poi c’è un lungo seguito di film abbozzati, falliti, già gli Amberson che viene tagliato, e da quel momento la sua triste storia dentro Hollywood è invece appassionante. Se la prendi come una avventura è appassionantissima. Lui che gira il mondo con la moviola, sempre pronto a cambiare film. C’è quella sua intervista sui Cahiers, in cui dice: “I miei film non li rivedo, se li rivedo sono disperato, perché sono bruttissimi”. E invece lodava Le petit soldat di Godard, perché era un film senza scene di raccordo, in cui si saltava da una situazione all’altra. Era molto sincero in questo, giocondamente triste, incompreso soprattutto da se stesso. In questo senso tutti dovremo sempre tutto a Welles, come diceva Godard e poi come diceva, in La nuit américaine/Effetto notte, Truffaut. E questa è un’altra deriva, dividere il cinema in Truffaut/Godard non più in Rossellini/Lang. Nel caso di Truffaut c’è uno strano mistero-cinema che lui è l’ultimo a incarnare. E, con tutta la carne al fuoco che mette Godard, la stranezza di La sirène du Mississipi/La mia droga si chiama Julie la può anche capire, ma non riesce a farla perché non vuole e non può. E non è un caso – nulla è un caso, quindi tutto è un caso – che Truffaut abbia fatto il personaggio del professeur nell’ultima parte di Incontri ravvicinati del terzo tipo: commovente per inerzia, è come se sbattesse contro il suo enigma, l’enigma del cinema di cui non sappiamo nulla. Possiamo fare anche mille critofilm ma non capiremo mai perché Roma città aperta è sicuramente il meno bello dei film di Rossellini, cosa abbia di intenso…una combinazione di una calza sdrucita, di un urlo. Se ci pensi con la televisione tutto questo esplode, all’ennesima potenza o all’ennesima debolezza.

Alessandro Aniballi: Ricordo che a proposito degli incompiuti di Welles avevi ideato questa definizione: la coda della cometa…

Enrico Ghezzi: La coda della cometa, sì. Adoravo fare titoli. Era il titolo del programma di Taormina che facemmo su Welles.

Alessandro Aniballi: E mi pare che tu parlassi del paradosso secondo cui per il cinema di Welles forse è preferibile il frammento rispetto al tutto, al film intero e/o compiuto.

Enrico Ghezzi: Ma questo avviene per tutti, se ci si mette un po’ di attenzione, attenzione che bisogna regolare. Se scegli di star attento a tutto, non vedi nulla, e quindi freudianamente devi mescolare attenzione e disattenzione. Ciò detto in ogni film hai la possibilità di vedere un film per singoli pezzetti, che non sono resti del film – c’è anche il concetto di resto – ma il concetto più importante è quello di incompiutezza. I film sono solo tutti incompiuti. Già quelli che ti sembrano avvolgibili come un DVD, è quello che facciamo da tanti anni ciascuno di noi vedendo o non vedendo un film, c’è una vicinanza estrema tra il vedere e il non vedere… l’essere e il non essere del cinema è questo. Il cinema regala allo spettatore-critico-chiunque un incrocio di sguardi che può essere fatale, pesante, e in cambio da noi ottiene solo una maggiore pesantezza, rilancia sul piano della pesantezza, della non linearità. Io dico sempre – anche se ora spero meno – quando qualcuno mi/ci dice: “Ma cosa sono queste cose alambiccate, almanaccate? Che bisogno c’è di scrivere o di dire cose così che non si capisce niente?” A me risulta naturale di rispondere: il cinema è talmente semplice, talmente abbagliante che vale la pena di complicarlo, solo complicandolo riesci a vedere qualcosa, un po’ come si fa in moviola ma senza moviola, anzi al contrario lasciandolo fluire nella testa. Penso che tutti i film siano incompiuti, ma anche quelli fatti in una sola ripresa, che adesso è diventato un nuovo genere, giustamente. Ma è una cosa che noi crediamo di inseguire e che invece ci ha già giocato molti decenni fa, al di là della nostra singola età. Cioè tu credi di inseguire questa cosa, invece sei largamente mangiato già, dietro c’è un lupo che si mangia il tuo sogno che è davanti, il tuo palindromo, tutto quello che vuoi.

Alessandro Aniballi: Però io avevo interpretato questa tua riflessione sul compiuto/incompiuto wellesiano come un gioco sulla forma: la perfezione della forma e/o del frammento in sé – vedi la sequenza del cinema del Chisciotte, che non è solo ossessione del quadro, ma anche del montaggio, del ritmo del montaggio – in un contesto imperfetto, in cui cioè la forma definitiva – il film finito – non viene raggiunta.

Enrico Ghezzi: Secondo me non è così, gli dai troppa facilità. Welles è molto più tragico o d’altro lato molto più comico, molto più leggero, molto truffatore o assolutamente vero, è una dicotomia, è un ossimoro continuo Welles. Non vedo la perfezione della forma, vedo soprattutto un grandissimo giocatore, che gioca fino alla fine, che usa i soldi per giocare ancora, cioè per fare dei film che non potranno che essere a brandelli, oppure che non potranno che essere dei making. È geniale il making fatto da lui vent’anni dopo Othello. Il termine di mago gli è stato attribuito in maniera spesso casuale ed errata, ma lui era veramente un mago. La sera prima di morire aveva fatto uno spettacolo di magia a Hollywood e F for Fake è uno dei film più belli sulla magia del cinema che, figurati, da Méliès in poi metà del cinema è stata così, non è una particolarità wellesiana. Semmai c’è una… A proposito di Lumière e Méliès, c’è una cosa: stamani quando mi sono svegliato ho visto una dicotomia molto più forte di quella che viene letta abitualmente, ma ora non mi viene, mi verrà spero prima della fine. Welles è il tipico regista che ti basta per fare della storia del cinema, è una storia del cinema d’autore en abrégé, riuscita benissimo, con i buchi giusti al momento giusto. Welles che tra l’altro ammirava Kubrick, il fantasma di Kubrick è ineliminabile, è una pietra miliare troppo forte. Se sprofondi Welles trovi alcuni giudizi fondamentalmente a favore di…?

Alessandro Aniballi: Dici per chi diceva di mostrare apprezzamento? De Sica, in primis. Diceva essere il suo regista preferito. Per il suo essere un regista popolare, che piaceva a tutti.

Enrico Ghezzi: Sì, ma è quello che non è che non sia riuscito a essere Welles, non ha voluto esserlo. In questo c’è una mancanza di chiarezza, una delle poche volte in cui bisognerebbe essere chiari. Perché Welles non è quello che dice o fa, ogni volta c’è un’inversione. Quello che dice Welles è quello che poi fa, pur mettendolo in opposizione. Se poi invece ti dice che sta facendo questo, verifichi e ti sembra che stia parlando di un altro film e di un altro regista. È inventivo, molto teorico e moderno Welles, è uno che davvero ti può bruciare tutto il cinema in un pomeriggio. Se pensi poi a Citizen Kane/Quarto potere vedi un film che finisce dall’inizio, un film che passa subito a tutti gli elementi, il fuoco, l’acqua, l’aria, la terra, tutto. No, è troppo… in questo senso è inesauribile.

Alessandro Aniballi: Prima parlavi del teatro e del palcoscenico, citando Democrito. E Welles diceva anche questo: “Il mago è un attore che fa il mago”. E qui si legge l’idea tipicamente seicentesca del mondo come teatro.

Enrico Ghezzi: Sì, certo, il teatrum classico. Niente a che vedere con l’epica dell’avventuroso, del cinema da rivelare in qualche modo. È, questo, un segreto che lui possiede già. Come tutti i grandi per cui il cinema c’è già, e alla fine dove trovi incredibilmente Kubrick, ma dove trovi Rossellini, Lang, Jean Renoir…eh…beh, Rossellini di nuovo. È il cinema che ce l’hai lì, non a portata di mano, come diceva Rossellini, ma di più, a portata di testa, come diceva sempre Rossellini. Il cinema è una cosa potenziale, è una potenza, intesa come cosa che deve ancora svilupparsi. Poi, tecnicamente, lo sviluppo sappiamo che è una cosa che incide nel tragitto tecnico. Ecco, Welles è uno che non ha sviluppato, che non ha voluto sviluppare, che ha preferito l’avvilupparsi in tanti film, nel fluire dei film nella sua testa. Che poi è lui che non ha scelto tra se stesso e se stesso. E in questo senso è molto shakespeariano.

Alessandro Aniballi: E invece Too Much Johnson

Enrico Ghezzi: Capolavoro!

Alessandro Aniballi: Ci dice qualcosa in più su questo?

Enrico Ghezzi: Sì, molto. Perfino la foto dal set con lui in veste da para-cangaçeiro. Sono rimasto molto stupito da questo film, è un film dove lui è costantemente staccato dal plot, e quindi lo vedi quasi a nudo, come pura regia. Ti mostra che ha smesso di fare film, intesi come si intendono di solito, neanche con Quarto potere, che era già il frutto maturo e decadente di una civiltà hollywoodiana, ma con The Hearts of Age, altro titolo magnifico, che aveva fatto a quindici anni. Era già un film dove vende tutto.

Alessandro Aniballi: E poi entrambe sono operazioni molto cinefile, ancora prima che esistesse la cinefilia, sia The Hearts of Age, che Too Much Johnson, nel primo c’è l’avanguardia storica, nel secondo le comiche mute. Lui che a parole era anti-cinefilo.

Enrico Ghezzi: Era anti-cinefilo ma perché voleva dire essere anti-se stesso. Il problema addirittura classico, il più semplice che c’è nel cinema e cioè il piano-sequenza e il montaggio, oggi è fin troppo facile scovarlo, trovarlo, ma sembra di nuovo un manuale su questo, dove curiosamente – no, anzi, fatalmente – c’è un momento in cui supera entrambi e ne fa un’unica cosa, che è Quarto potere. Mentre lo vedi aggiungi tu al lavoro di Gregg Toland, diventa un film quasi enfatico tanto da solo istruisce un codice e poi lo usa e lo dà da usare. C’è poco da fare, anche se ti può annoiare, io ogni volta che mi riaccosto a Quarto potere penso immediatamente al delirio e alla magnifica ossessione di cinema come ripetizione di stati di vita, ma forse nemmeno di vita, di ultra-vita. E questa è una cosa che brucia le ali di Welles e che lo rende appunto uno cui sempre dovremo tutto, non importa se un film è più bello o meno dell’altro, lui stesso è molto incerto su questo, molto incerto, molto tattico, ma la strategia è questa, di consegnare pezzi di un giocattolo perfetto. Cioè, molto dopo l’incompiuto, l’incompiuto è questo: l’incompiutezza del proprio desiderio, non del fatto che una scena potesse essere girata meglio. Questo era quello che diceva lui: “Non rigirerei uguale nessuna inquadratura di nessuno dei miei film”. Una cosa un po’ forte da dire, e che nello stesso tempo svuota il concetto di compiutezza. Dopo aver fatto un ingresso clamoroso, che sembra indicare il futuro di tutto il cinema, ha fatto solo ultimi film avendo già superato l’idea di ultimo. E dov’è il traguardo? Il traguardo è nello scoprire, agghiacciati, che non c’è quasi differenza tra cinema, film, vita… quasi. Lui col suo girovagare nel mondo è uno di quelli che si è avvicinato di più a questo.

Alessandro Aniballi: Parlando diverse volte con Mauro Bonanni, lui ci ha detto che il primo che ha conosciuto di Fuori Orario è stato Marco Melani. E poi, dopo, ha conosciuto sia te che Ciro Giorgini.

Enrico Ghezzi: Sì, è vero. Non me lo ricordavo, ma è vero.

Alessandro Aniballi: Quali sono i tuoi ricordi relativamente alla questione del Don Chisciotte, che esplodeva proprio all’inizio degli anni Novanta, con la tremenda versione di Jess Franco?

Enrico Ghezzi: Purtroppo è una storia sostanzialmente giudiziaria. Però era molto bello presentarlo a Taormina nell’emiciclo del Teatro Olimpico, presentare queste immagini potendo dire: “Vi presentiamo un corpo del reato”. Io ho seguito la questione stavo per dire in modo parassitario verso la mia curiosità, una curiosità data. Quindi apprezzo di più il gesto di cercare ossessivamente, come ha fatto Marco, come ha fatto Ciro, di trovare una somiglianza con quello che il film gli aveva già suscitato. Poi uno deve cercare di ricordare, ma è un gesto falso, falso nel senso di F for Fake, non c’è né un senso politico né morale. Quindi ad un certo punto c’erano dei momenti in cui questo accanimento risultava comico, c’erano dei momenti o delle serate o delle mattinate in cui Ciro era invasato dalla storia di Too Much Johnson. E a me l’ha raccontata una volta stando in piedi dopo aver detto te lo dico in due minuti, e siamo stati un’ora e venti, davanti alla vespa a via Teulada prima di andarcene a casa. Il momento più alto è il rientro in una chiave di cinema e del montaggio, ovvero l’F for Fake dello stesso Welles, e Ciro era su queste piste, poi però la falsa pista era quella di collegare tutto, perché ti perdi subito. Non sono mai stato vittima di questo, e forse era meglio esserlo un po’ di più. [pausa] Ho da dire poco di Ciro e Welles perché per me il segreto di Ciro era una passione quasi psicotica verso il cinema, infatti tra l’altro eravamo d’accordo su quello che in genere capita a molti – volevo quasi codificarlo in un libretto – che i film sono a bianco e nero o a colori indipendentemente da come sono e semmai dipendono dalla tua inclinazione, una specie di daltonismo filmico, fiorente. Ma mi è successo molte volte, aiutato da copie che realmente erano così, perché come vi raccontavo a proposito delle copie anni Cinquanta: tu vedevi un film in bianco e nero, poi scoprivi che era in technicolor, e poi però ti sembrava di nuovo che fosse come era la prima volta. Secondo me in questo colore e bianco e nero c’è molto, ci può essere molto. Quando dico che il tratto principale di Ciro è quello della narrazione, anche Welles è così, è uno che vorrebbe raccontare mille storie. Per me la figura più vicina all’idea di Le mille e una notte al cinema è Orson Welles. Welles, che dopo il primo film si rende conto che al massimo in quella direzione potrebbe fare un documentario su se stesso, ma non se ne accontenta e butta lì delle storie più o meno ritrattate, rilavorate, a volte bellissime, a volte stupende, a volte bruttissime. Une histoire immortelle, perché è già morta.

Raffaele Meale: Un’altra questione che ci sta molto a cuore è il discorso sulla pellicola e sul digitale, su questo passaggio tecnico epocale. Qual è la tua posizione?

Enrico Ghezzi: Anche questa è ciresca.

Alessandro Aniballi: Sì, esatto.

Enrico Ghezzi: Una delle cose più belle che ho sentito nell’ambito della proprietà di narratore di Ciro è quella della camicia di Stromboli [vedere in proposito il racconto della reazione di Ciro Giorgini alla proiezione in digitale di Stromboli di Rossellini, n.d.r.], che è molto precisa anche tecnicamente e teoricamente secondo me, e lì è il punto. Però perché spaventarsi di fronte a un lavoro che spesso viene fatto così da te senza bisogno della macchina? Oppure il rapporto con la macchina-cinema è quello che davvero ti permette di inventare altre inquadrature, altri film. Allora, la nostalgia si deve bruciare in un attimo, tutto quello che non si brucia diventa ideologia. Diventano piccole ossessioni, invece che magnifiche ossessioni. La cosa bella di quella storia lì è la storia che ne fa Ciro, quasi convincendoti. Bellissima, appassionante, e forse – tra virgolette – vera. Ma non è una questione di verità. È molto abusata la definizione di verità al cinema. Per me uno dei più grandi cineasti di finzione, Fellini… no volevo dire Rossellini, ma anche Fellini. Rossellini forse è il più interessato al concetto di verità, ma è anche quello che ne parla meno o in modo più trascurato e trasandato, pur essendo una persona molto acuta. Sa che la verità non è neanche l’ultimo inganno, la verità è il primo inganno. Ma puoi anche metterci al posto l’occhio: affidare all’occhio la verità vuol dire affidare la verità al primo e più forte degli inganni, cioè l’occhio che è più forte, perché ti fa sembrare…no, non ti fa sembrare, è il mondo come lo tocchi, come lo vedi, e quindi ti affidi a una cosa inaffidabile al massimo, e allora se è inaffidabile al massimo che ti importa del digitale? Al limite il punto formalmente è: c’è una forma di desiderio simile quando ti trovi di fronte al problema-digitale in un film, ovvero la forma della bulimia di volerlo comunque vedere. Finché c’è un film da vedere vuol dire che siamo ancora vivi, poi invece siamo inghiottiti dalla indifferenza, dalla differenza tra un fantasma e l’altro. Il cinema ha spesso questa funzione proiettiva, prima proiettiva e poi protettiva, nel senso che protegge dall’essere tutto uguale, siamo destinati o provenienti dal cinema, siamo destinati a provenire da dove siamo già provenuti. Diciamo che probabilmente il cinema è la cosa che ancora ci dà la sensazione di essere vivi.

Raffaele Meale: Ok…

Enrico Ghezzi: Vi do tempo per un’ultima domanda.

Alessandro Aniballi: Ah, bene, allora vorremmo ripartire dall’inizio. Cioè dalla tua formazione – o folgorazione – cinematografica.

Enrico Ghezzi: Folgorazione no. Ho cercato di capire e ci sono arrivato solo vent’anni dopo a quale fosse non il primo film che avessi visto, ma il primo film di cui avevo avuto contezza, che mi ero reso conto di quello che era. Un film di Stevenson, un Disney a colori, un film sull’assalto alle navi inglesi nel porto di Boston, ah, ecco: I rivoltosi di Boston (1957). Mi ricordavo questa cosa, di spreco delle cose buttate in acqua che mi aveva molto colpito. E quello però l’ho scoperto molti anni dopo quando l’ho rivisto. Invece al cinema parrocchiale, a Lovere, in provincia di Bergamo, sul lago d’Iseo, dove sono nato, mia madre faceva la professoressa e animava due cineclub, uno molto cattolico e uno più laico, lei vide due Kubrick: Rapina a mano armata e…non ricordo quale altro. Dopo mi sono ricordato di aver visto molti film quando ero proprio piccolo. Ho visto molti Bergman, li vedevo baluginare. Invece Orizzonti di gloria ho capito dopo un sacco di anni che l’avevo visto presentato da Claudio G. Fava. Non c’era però un grande amore di partenza per il cinema, perché ero troppo occupato a leggere. Leggere è stato molto più divorante che non il cinema. Per il cinema poi è bastato fare dei piccoli accorgimenti spaziali, tipo prendere un treno, chiedere un passaggio, e trovavi una specie di grande libro mobile, semovente, il cinema, e vedevi… Per cinque, sei anni ho visto cinque film al giorno, contando anche i festival. E c’è stato un periodo in cui andare al cinema voleva dire uccidere la settimana, uccidere l’accompagnatore, l’accompagnatrice, perché poi c’era questo elemento di entusiasmo furioso ma triste e molto solitario. Una cosa che usava molto, questo a Genova, che era una super-punta della cinefilia, quando ci vedevamo alla fine non si parlava, si usciva muti. Mi ricordo Sul fiume d’argento di Walsh, capolavorissimo, tutti uscimmo con una faccia sbattuta come se avessimo preso in pieno la porta e nessuno che diceva nulla. Sono passati anni prima che il gruppetto di cinefili cominciasse a discutere, due che venivano dai cineforum dell’Arecco, dai gesuiti, dieci persone che non si parlavano e che però all’uscita trasudavano evidentemente dalla voglia di dire: “Che capolavoro!”. Io mi sbloccai da questo punto di vista alla fine di Au hasard Balthazar, a una proiezione al Postelegrafonico la mattina di domenica che alla fine mi alzai, sembravo un pazzo, e stringendo i pugni dicevo: “Ma è straordinario, il cinema… questo non è il cinema,… il cinema”. Mi hanno portato via quasi in catalessi. [pausa] Niente, non mi sono ricordato la dicotomia Lumière/Méliès. Magari la prossima volta.

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