Il codice da Vinci

Il codice da Vinci

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A tratti farraginoso e funestato da interpreti troppo inamidati e rigidi, Il codice da Vinci è in ogni caso un thriller che mantiene la sua promessa di un intrattenimento pensoso e intrigante.

Il potere occulto della fantasmagoria

Un omicidio commesso al Louvre e le prove contenute nei dipinti di Leonardo Da Vinci conducono alla scoperta di un mistero religioso protetto da una società segreta per centinaia di anni. Un segreto che può scuotere le fondamenta della Cristianità… [sinossi]

Racconta la leggenda che in quella fatidica sera parigina sul Boulevard des Capucines, una folla terrorizzata si riversò in strada allorché una locomotiva nera e ostile, fuoriuscita da un lenzuolo bianco, minacciava di travolgerli. Sono passati più di cento anni da quando i fratelli Lumière sottoposero un gruppo di ignari spettatori a un potente incantesimo, una stregoneria che valeva una scomunica, ma il cui segreto fu presto “rubato”, si diffuse a macchia d’olio in ogni parte del globo terraqueo e ancora oggi soggioga uomini e donne che periodicamente si riuniscono per replicare il rituale con indefessa abnegazione.
Si è già discusso a lungo sui quotidiani e nei talkshow televisivi dell’impatto di un film come Il codice Da Vinci sugli spettatori credenti ma, piuttosto che impelagarci in discussioni teologiche che non ci competono, preferiamo suggerire qualche riflessione sullo stato attuale del dispositivo cinematografico e della sua industria portavoce universale, vale a dire la grande macchina hollywoodiana.
La questione più inquietante che Il codice Da Vinci ha sinora sollevato, pare essere la bassa considerazione che le istituzioni, specie quelle ecclesiastiche, hanno del grado di istruzione del pubblico cinematografico: una massa di beoni che non sa distinguere la realtà dalla finzione. A differenza dei lettori di un diffusissimo bestseller, che veicola le sue problematiche fantateologiche con i soli poteri della suggestione letteraria, lo spettatore sembra essere condannato dall’immagine a un sempiterno analfabetismo, confonde la rappresentazione con la realtà, cede le armi della ragione pagando il biglietto e barattando così la propria salvezza per un paio d’ore di entertainment.

Quanto al fenomeno industriale, certo il film di Ron Howard rientra nel filone del blockbuster estivo statunitense per battage pubblicitario, strategie di prevendita (da un romanzo di successo), alti costi di produzione e, novità più recente, l’uscita in contemporanea mondiale, circondata dalla giusta quantità di mistero e da roboanti, quanto funzionali, polemiche.
Ma veniamo ora al film che senza dubbio mantiene, nonostante i numerosi difetti, le promesse di intrattenimento, fascinazione, dibattito. Argomentazioni piuttosto allettanti governano la narrazione e influenzeranno magari il linguaggio di un pubblico ora istruito su simbologia e oggettistica esoterica, sulla storia del Priorato di Sion e dei Templari, su cosa siano il pentacolo, un cryptex o uno scotoma, e a qualcuno forse resterà la curiosità di conoscere il simbolismo del “femminino sacro”, ma questo è un altro libro, per cui non ci è dato saperlo.

Come sovente accade nei thriller più complessi e disorientanti, anche ne Il codice Da Vinci abbondano le contraddizioni, e la loro problematicità è amplificata dai temi religiosi affrontati; nessuno infatti ha mai protestato per la mancanza di un totale scioglimento dei misteri de Il grande sonno o de La signora di Shanghai, la loro esplicita natura di finzione non lo richiedeva. Naturalmente finché si tratta di arte tutto dovrebbe essere concesso, ma dal momento che Il codice Da Vinci affronta problematiche riguardanti il cristianesimo, la faccenda si fa più spinosa, e il film ne è ben consapevole, visto che si preoccupa di ricordare il suo status di congettura, affermando che non tutti i membri dell’Opus Dei sono così estremisti e che il Cristo, divino e/o umano che fosse, ha lasciato la sua testimonianza in parole dense di significato.
I flashback esplicativi che punteggiano qua e là la narrazione, richiedevano però un’orchestrazione più oculata. Le indubbie capacità tecniche di Ron Howard e del suo sodale direttore della fotografia Salvatore Totino, si impegnano a distinguere il presente dal passato donando a quest’ultimo una fotografia granulosa e uno stile di ripresa intermittente e suggestivo, ma non c’è differenza visibile tra le differenti temporalità che i flashback rielaborano in tal modo e i ricordi d’infanzia dei protagonisti, la storia dei Templari e momenti chiarificatori di un passato molto prossimo (l’escamotage usato per la fuga nell’hangar), risultano tutti sullo stesso piano temporale. Il film soffre inoltre di un vistoso sbilanciamento tra una prima parte avvincente e serrata e una seconda invece più farraginosa, punteggiata di colpi di scena, rivelazioni, capovolgimenti, agnizioni macchinose e tutto sommato, date le tematiche affrontate, poco interessanti. I difetti del film non impediscono in ogni caso un certo piacere, o quantomeno interesse, nella visione: Il codice Da Vinci riesce a catturare lo spettatore con le sue incursioni nella Storia, nella simbologia religiosa, le ipotesi di una versione differente dell’ultima cena, con tanto di interpretazione del quadro leonardesco degna di una lezione di storia dell’arte.

Il potere della semantica ha poi un ruolo centrale, che ben si esprime nella sequenza iniziale, con la lectio magistralis del Professor Langdon (Tom Hanks), intento a illustrare gli inganni in cui si cade quando si interpretano i simboli presenti nelle immagini isolandoli dal loro contesto. Le dissertazioni di Sir. Leigh Teabing (Ian McKellen) nel suo castello meritavano forse maggiore fiducia, per una volta, nell’aspetto verbale della vicenda, mentre Ron Howard, temendo un’eccessiva verbosità, ha interpolato il monologo su religione e arte con l’arrivo della polizia francese, guidata al rallentatore da un più che mai statico Jean Reno. Mentre va detto che l’ultima spiegazione, quella nella misteriosa cripta, non conserva la stessa allure, forse perché non c’è Ian McKellen che, ormai non c’è dubbio alcuno, può pronunciare qualsiasi delirante dialogo (compresa l’ipotesi di un Vangelo di Filippo), senza intaccare la sua credibilità attoriale; vedere per credere, a tal proposito, la sua uscita di scena. A parte McKellen e il povero Paul Bettany, irresistibile con il suo cilicio a giarrettiera e la conseguente espressione di sofferenza, le altre interpretazioni risultano prive di convincimento. Tom Hanks e Audrey Tautou sono infatti (a differenza del monaco albino autolesionista) vistosamente insofferenti: i volti immoti, la fisicità oppressa dagli abiti inamidati, gli sguardi vacui come orbite vuote, la coppia di studiosi crittografi soffre di un disagio costante a qualsiasi latitudine. Risibili e noiose risultano poi le scenette distensive in cui si dispiegano battute e situazioni che si vorrebbero ironiche: rabbuianti più che divertenti gli accenni al British way of life praticato e predicato da Sir. Leigh, piuttosto usurata la comicità slapstick dei maltrattamenti del medesimo Sir ai danni dell’inseparabile maggiordomo, a cui però è dedicata una bella inquadratura presso i Docks londinesi. Nel finale poi, l’algida Audrey tenta di riscattare la sua antipatia con una boutade tardiva, blasfema neanche un po’. Non mancano invece le risate involontarie e qualche incongruenza: a parte l’effetto dei flashback che rendono l’infanzia dei protagonisti contemporanea alle vicende dei Templari, non si spiega perché la discendenza matrilineare abbia esclusivo rilievo per la storia, mentre invece sarebbe assai più semplice estrarre il DNA del Cristo da una delle reliquie in nostro possesso, se l’obiettivo è davvero scardinare il mito della sua castità.

Dunque lo scopo di romanzo e film non è dissacrare, bensì sollevare degli interrogativi circa l’essenza insieme divina e umana del Cristo (la soluzione proposta è: l’umano è divino), passare al setaccio alcune opere di Da Vinci, ripercorrere la storia del femminino nella religione, intrigare con ipotesi di complotti e insabbiamenti. Mentre i problemi, tutti extradiegetici, che il film-evento ci propone, sono assai più interessanti, e non può che farci piacere scoprire che per qualcuno i poteri “eidetici” e “scotomici” del cinema sono ancora intatti, per nulla scalfiti da decadi di produzione industriale né da dissertazioni teoriche di studiosi ed esperti della materia.

Info
Il trailer de Il codice Da Vinci.
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