Settimana della Critica 2015 – Presentazione
L’edizione del trentennale, l’ultima con Francesco Di Pace in qualità di delegato generale. Tra Peter Mullan, il racconto espanso di una famiglia cinese e molto altro. Il resoconto della presentazione della Settimana della Critica 2015, svoltasi come da tradizione a Roma.
La Settimana Internazionale della Critica, la più antica e prestigiosa tra le sezioni collaterali che animano i lavori della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, compie trent’anni. Una cifra non indifferente, con la quale la SIC esce dalla giovinezza per entrare in maniera definitiva e compiuta in quella che viene chiamata “età adulta”. Un passaggio che viene affrontato senza particolari scossoni, visto che lo schema che si presenta agli occhi degli addetti ai lavori è più o meno sempre lo stesso. O quasi… Al canonico concorso di sette opere prime, introdotto e chiuso da due film fuori concorso, si aggiunge quest’anno un titolo che svolgerà la funzione di “pre-apertura”. Il perché è presto detto, e non usa mezzi termini Di Pace per spiegarlo: quando gli occhi del comitato di selezione (composto ancora una volta, l’ultima, da Nicola Falcinella, Giuseppe Gariazzo, Anna Maria Pasetti e Luca Pellegrini) si sono posati su Jia, vale a dire The Family del cinese Liu Shumin, la folgorazione è stata immediata. Il programma però era praticamente chiuso, e per di più – dettaglio da non sottostimare per una sezione che deve combattere ogni anno con uno spazio esiguo a disposizione, e fare la conta degli slot a disposizione – l’esordio di Liu dura addirittura quattro ore e quaranta minuti (ed è girato in 35mm).
Si è così deciso di selezionare in ogni caso il film, ma di regalargli l’inedito compito di “pre-aprire” la SIC. Una scelta che mantiene anche una logica all’interno della storia recente della Settimana della Critica, visto che la Cina nel corso degli ultimi anni si è dimostrata una delle realtà più indagate e affascinanti, come dimostrano The Coffin in the Mountain di Xin Yukun e Trap Street di Vivian Qu.
Sui sette film in concorso, come d’abitudine, sarebbe azzardato e privo di fondamenta lanciarsi in letture che dovrebbero in maniera inevitabile avvicinarsi alla divinazione pura. Restano come sempre le sinossi della cartella stampa ad aprire squarci nell’immaginario cinefilo, che si affida per ora ai luoghi: l’Anatolia di Senem Tüzen e del suo Motherland, il Nepal di The Black Hen di Min Bahadur Bham, l’Inghilterra fotografata da Esther May Campbell in Light Years. E ancora la Lisbona raccontata da João Salaviza in Montanha, la Singapore dittatoriale e anticomunista di Green Zeng (The Return), l’isolotto delle Vanuatu in cui è ambientato Tanna di Martin Butler e Bentley Dean, la Romania descritta da Adriano Valerio in Banat.
Sette esordienti (otto, considerato che Tanna ha una regia a quattro mani) pronti a darsi battaglia nella speranza di accaparrarsi il premio del pubblico o di ottenere il Leone del Futuro. Ma soprattutto speranzosi di vincere il trofeo più importante: una carriera cinematografica. In attesa di scoprire se tra di loro vi è qualcuno già in possesso di uno sguardo autonomo, indipendente, autoriale. Lo sguardo che hanno mostrato, fin dai primi film, i due registi scelti come numi tutelari, e a cui sono state affidate le chiavi dell’apertura e della chiusura. Peter Mullan riporterà al Lido Orphans, con cui trionfò nella Settimana della Critica del 1998, mentre Antonio Capuano presenterà il suo nuovo parto creativo, Bagnoli Jungle, a ventiquattro anni di distanza da Vito e gli altri, con cui sbalordì il pubblico della SIC 1991. Corsi e ricorsi storici di una sezione sempre più viva, combattiva, pronta a scontrarsi e incontrarsi con il reale. Come sempre, da trenta anni a questa parte.