After

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Ispirandosi all’ultimo caso letterario del filone new adult, l’esordiente Jenny Gage dirige con After un film che brilla per inconsistenza, con una trama stirata e piena di lungaggini, e un casting privo di logica.

“Dopo”… Il nulla

Al suo primo giorno di college, la diciottenne Tessa Young conosce Harding Scott, studente ombroso e affascinante, popolarissimo tra le ragazze del college. Tra i due scocca un amore problematico, fatto di contrasti e riavvicinamenti, che fa avvicinare Tessa a un mondo e a un modo di vivere sconosciuti… [sinossi]

Dopo i vampiri di Twilight e il (blando) BDSM della serie delle 50 sfumature, il filone sentimental-teen (con la relativa variante new adult) sembra voler tornare all’essenziale con After. Non c’è più bisogno di orpelli o elementi esterni, nessuna coloritura sovrannaturale o prurito “famolostranista” per stuzzicare un po’ di più la fantasia del pubblico di riferimento; quello che, composto equamente da adolescenti e adulti con una distorta visione della sindrome di Peter Pan, una volta catturato dalle estemporanee, sospiranti avventure concepite dall’autrice di turno, poi accorre in massa al cinema. Stavolta, l’origine del “fenomeno” è una fanfiction sugli One Direction, che l’autrice Anna Todd avrebbe scritto per gioco, incontrando un inaspettato riscontro sulla piattaforma social Wattpad. Il riscontro si è trasformato rapidamente in dipendenza, e poi in un contratto con la Simon & Schuster, con un totale di sei libri e quattro spin-off, scritti complessivamente in soli tre anni. Unica, ovvia necessità di forma nel passaggio su carta, il cambiamento del nome del protagonista (che non è più proprio il cantante… Ma idealmente sì) da Harry Styles a Harding Scott.

Non ha molto senso, specie nel 2019, accanirsi per principio contro operazioni come questo After, che esprimono l’ovvio accodarsi hollywoodiano (ma sarebbe così per qualsiasi industria cinematografica degna di tale nome) a un estemporaneo fenomeno letterario. Quale sarà, poi, il vero riscontro commerciale dell’operazione – verosimilmente ideata, anche al cinema, come franchise – sarà tutto da dimostrare; specie dopo che l’onda lunga del filone sembra ormai prossima a esaurire il suo normale ciclo di vita. Nessun cedimento a tentazioni snobistiche, quindi, almeno per quanto ci è possibile avendo chiari i precisi, dichiarati limiti di concezione del prodotto: tuttavia, è impossibile non sottolineare la pochezza, narrativa e cinematografica, di un film come quello di Jenny Gage, modesto anche all’interno del suo filone di riferimento. Avendo a disposizione una storia già inconsistente di suo, la regista sembra impegnarsi in modo particolare per raccontarla male, sbagliando i tempi narrativi, profondendosi in inutili primi piani (il primo sguardo tra i due protagonisti è un raro esempio di kitsch involontario), affidandosi a un casting privo di logica (il giovane Hero Fiennes-Tiffin, già Lord Voldemort in Harry Potter e il principe mezzosangue, sembra muovere ben pochi muscoli facciali in tutti i 100 minuti del film).

Il debolissimo filo conduttore letterario che attraversa la storia, appiccicaticcio e di facciata almeno su grande schermo, si riduce a una serie di citazioni più o meno decontestualizzate, tratte da classici come Orgoglio e pregiudizio, Cime tempestose e Anna Karenina (oggetto, in Italia, di ripubblicazione da parte dell’editore Sperling & Kupfer, sotto la curiosa dicitura “I classici di After”): ma l’elemento della passione letteraria e umanistica, che dovrebbe contribuire ad avvicinare i due protagonisti e cementarne l’immaginario romantico comune, viene abbandonato praticamente da subito. Per tutta la durata del film, si aspetta inutilmente un sussulto, un pur piccolo elemento che movimenti la storia, uno scarto narrativo che tenga vivo l’interesse: nell’attesa, si passa attraverso i sospiri d’ordinanza, i ridondanti montaggi di situazioni di coppia che suggeriscono lo scorrere del tempo (qui ne troviamo ben due, contro ogni logica narrativa), i risaputi conflitti familiari, le sottolineature di luoghi “magici” che non si capisce in base a cosa vengano definiti tali. Dei personaggi di contorno, ovviamente, si perdono totalmente le tracce, almeno fino ai dieci minuti finali, in cui la regista piazza il supposto twist narrativo: una svolta debole (anche – di nuovo – considerati i limiti entro cui ci si muove), le cui conseguenze vengono riassorbite rapidamente e in modo indolore.

Privo, in sé, anche di quell’aura da scult capace di rendere godibili alcuni prodotti analoghi, atto a rimanere nella memoria semplicemente come film trascurato e noioso, After non si libera nemmeno (almeno ai nostri occhi) di quello che è ormai un sentore di film (nato) vecchio. I sospiri, le svenevolezze e le trasgressioni da festa del sabato pomeriggio con gazzosa, sembrano un bignamino – assemblato alla bell’e meglio – di tutto ciò che il cinema e la letteratura teen ci hanno fatto vedere in quest’ultimo decennio. Forse il pubblico non la penserà esattamente così, ma la sensazione resta forte. Il dubbio che però ci rimane, alla fine di tutto, è principalmente uno: ma i membri superstiti di Ramones e Pink Floyd lo sanno che i protagonisti di questo film non fanno che indossare t-shirt coi loro nomi? E, se sì, cosa ne pensano? E inoltre, che senso ha fargliele indossare, se poi la musica (diegetica e non) che ci viene fatta ascoltare per tutto il film è di ben altro – e ben più modesto – tenore?

Info
Il trailer di After.
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