La mia vita con John F. Donovan

La mia vita con John F. Donovan

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A quasi un anno dalla funesta presentazione a Toronto esce in Italia il settimo film di Xavier Dolan, La mia vita con John F. Donovan: un confuso, prolisso e asettico racconto a proposito dell’assurda – e inverosimile – amicizia epistolare tra un bambino e una star televisiva.

Cronaca di un disastro confermato

Rupert Turner, giovane attore, decide di raccontare la vera storia di John F. Donovan, star della televisione americana scomparsa dieci anni prima, che in una corrispondenza epistolare gli aveva aperto le porte del cuore, svelando i turbamenti di un segreto celato agli occhi di tutti. Ne ripercorre così la vita e la carriera, dall’ascesa al declino, causato da uno scandalo tutto da dimostrare. [sinossi]

A proposito di Xavier Dolan si potrebbero intavolare non pochi discorsi, che hanno a che fare anche e soprattutto con lo stato delle cose nel cinema contemporaneo, in cui i talenti in circolazione vengono individuati con troppa superficialità, quindi allevati come polli in batteria e ancora gonfiati a dismisura di ego, per poi infine abbandonarli al loro destino.
Vien da pensare, infatti, che ci sia stato un malinteso intorno alla figura di questo regista che forse non diventerà mai cineasta, lodato e incensato a dismisura, ma evidentemente sempre più privo di controllo e di ispirazione.
Ad appena trent’anni Dolan ha già girato otto film. E allora? Questo puro elemento statistico deve forse smettere di essere preso come merito, ma può cominciare piuttosto a essere individuato come un difetto. Evidentemente, se ha fatto tutti questi film, è perché trova facilmente i soldi per farli, non necessariamente le idee.

Lo dimostra in maniera lampante e persino sin troppo impietosa la sua settima fatica (perché nel frattempo il regista canadese ha già girato un ottavo film, Matthias & Maxime, in competizione il mese scorso a Cannes), vale a dire La mia vita con John F. Donovan, presentato alla scorsa edizione di Toronto e ben presto sparito dalla circolazione, perché bersagliato dalle critiche negative. Un fallimento annunciato e confermato per il suo primo film anglofono.
E tutto appare decisamente troppo impietoso anche perché la crisi e l’empasse vengono tangenzialmente affrontate e tematizzate in La mia vita con John F. Donovan, dove il character che dà il titolo al film è una star della televisione, un attore forse dal dubbio talento ma di grande successo che si ritrova a essere fagocitato dal tritacarne mediatico.

Questo nucleo, non certo nuovo ma che almeno aveva delle enormi potenzialità sul piano autobiografico, resta però sostanzialmente vacuo, approssimativo, arieggiante, sia perché il vero protagonista non è il suddetto Donovan ma un bambino che gli scrive delle lettere, sia perché il personaggio soffre solo perché ci viene ripetuto alla nausea mentre non assistiamo mai alla sua reale sofferenza ma solo a interminabili dialoghi con suoi confidenti, decisamente troppi (la press-agent, e poi l’amica di sempre con cui finge di avere una relazione, e poi il fratello, e poi la mamma, e poi un ragazzo di cui è davvero innamorato, e quindi – infine – anche il bambino che gli scrive le lettere). Tutti si confidano con tutti, senza però dirsi mai niente di che, per via di dialoghi – scritti da Dolan insieme a Jacob Tierney – inerti, ripetitivi e prolissi.

E poi c’è il livello portante, le fondamenta su cui dovrebbe reggersi l’intera impalcatura di La mia vita con John F. Donovan, vale a dire l’amicizia a distanza, epistolare, tra il supponente e puntiglioso bambino grafomane e il depresso Donovan. Un’amicizia che non esiste, che non viene mai raffigurata, che non diventa mai ossessione parossistica (come, ad esempio, insegnava Truffaut nel magistrale Adele H.), ma solo passatempo, scusa per mandare avanti il film a una durata – poco più di due ore – che fatica terribilmente a reggere.
Ma, soprattutto, a cosa serve insistere a dire che i due si scrivono le lettere, se poi non li si vede praticamente mai scrivere e se poi non li si sente quasi mai declamare o leggere quello che si sono scritti? È come se qualche pazzo o buontempone decidesse di scrivere un romanzo epistolare senza mettere le lettere.

Che cos’è allora La mia vita con John F. Donovan? Il farfugliamento di un giovane regista che evidentemente si sente già vecchio, che sente già passato il meglio della carriera, ma che ancora non è in grado di riflettere a mente lucida, e lucidamente disperata, su questa sua condizione. E che in questo suo film, non solo non osa tentare almeno qualche svolazzamento estetizzante grazie a cui si aveva un po’ di appagamento di fronte a certi suoi film (come Les amours imaginaires o Mommy), ma addirittura cade in stereotipi narrativi triti e ritriti, già vetusti negli anni Cinquanta hollywoodiani, come quello dell’intervista al bambino diventato da grande scrittore di successo che fa da cornice a una serie interminabile di flashback e dove, assurdamente e incoerentemente, la giornalista rognosa – un po’ l’alter-ego dello spettatore – pian piano si scioglie perché si appassiona alla storiella da anime belle, del Donovan bello e dannato (all’acqua di rose).

Se dunque La mia vita con John F. Donovan voleva rappresentare un tentativo di classicità da parte di Dolan, forse è il caso per lui di mettersi a ristudiare i classici e la loro perfetta, geometrica e scientifica asciuttezza, la loro naturale e armonica semplicità.

Info
Il trailer di La mia vita con John F. Donovan.

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