Magari

Presentato come film d’apertura in Piazza Grande al 72esimo Locarno Film Festival, Magari è l’esordio al lungometraggio di Ginevra Elkann, un’opera di nostalgia e memorie famigliari, da un punto di vista infantile, di dinamiche di squadra tra fratelli sballottati tra genitori separati. Un film insipido che non riesce a non ricadere nel solito bozzettismo all’italiana.

Vado alla messa ortodossa

Alma, Jean e Sebastiano sono tre fratelli affiatati, che vengono improvvisamente impacchettati e spediti dalla madre, donna bizzarra convertitasi alla religione greco-ortodossa, con cui vivevano, al padre italiano Carlo, un regista fallito. Con lui e la sua compagna Benedetta trascorrono il periodo natalizio al mare. L’incidente di uno dei ragazzi riporterà i genitori a trovarsi e parlarsi. [sinossi]

Benedetta, sceneggiatrice interpretata da Alba Rohrwacher, rinfaccia al compagno Carlo, regista fallito, che il suo soggetto sia banale. Lui ribatte rivendicando una certa ambiguità, come se questa elevasse il suo progettato film rispetto alla media. La scena in discussione riguarda un uomo che non risponde al telefono perché sa che a chiamare è la sua ex. Ma perché non risponde? In fondo è una ex: oppure ha paura di qualcosa? L’ipotesi di film riflette, o esorcizza, o sublima, la situazione di Carlo che non parla più da cinque anni con la madre dei suoi tre figli, mentre Benedetta, con una punta di gelosia, teme il ritorno di quella donna. Questa scena, inserita da Ginevra Elkann nel suo film d’esordio Magari, espone evidentemente i suoi stessi dubbi e preoccupazioni sulla sua avvenuta impresa cinematografica. Carlo discute di un film, dove mette in maniera più o meno conscia il suo vissuto, all’interno di un film come Magari, che palesemente si dichiara come, almeno parzialmente, autobiografico. Non sappiamo dove finisce il vissuto e dove comincia il romanzato, e in teoria non ci dovrebbe nemmeno interessare. Ma è la notorietà mediatica della famiglia della regista, da lei stessa esibita con due apparizioni cameo di suoi famigliari riconoscibili (il padre Alain Elkann tra i partecipanti alla messa ortodossa e il fratello John Elkann che incrocia e abbraccia Carlo all’ingresso della casa di produzione), peraltro in un fastidioso autorefenzialismo, che ci obbliga a ragionare su aspetti biografici. Non risulta in effetti che il padre, con una importante carriera di giornalista e scrittore, abbia mai tentato di fare cinema. Si tratta quindi di un’invenzione del film che serve a Ginevra Elkann forse come autoanalisi, lei che è riuscita a fare un film con grandi e bravi attori, come Scamarcio e Rohrwacher, mentre suo padre nella finzione vagheggia un Mastrioanni che non arriverà se non forse alla fine. Un artista che non ha, ancora, prodotto niente a un’età maggiore di quella che aveva van Gogh quando si è suicidato, avendo già quindi vissuto una vita artistica d’eccellenza, lottando, in condizioni di indigenza.

Posto che l’autobiografia come soggetto è tendenzialmente banale, seguendo il famoso aforisma di Hitchcock sul cinema come la vita senza le parti noiose, le vite con parti interessanti sono una minoranza, è lecito chiedersi se Magari esca da quella banalità enunciata come limite per approdare in una salvifica ambiguità. L’ambiguità è determinata proprio dallo stesso personaggio di Benedetta che approccia in modo morboso il figlio maggiore di Carlo, quello più introverso, che soffre la compagnia del padre preferendo la madre. E tutta quella parte finale è evidentemente concepita dalla regista per far decollare il film in un crescendo di fatti drammatici che vogliono superare quello spauracchio del banale. Così il figlio maggiore, come si è detto un Lord Bullington taciturno e a disagio con il padre, uccide accidentalmente quel cane che rappresenta la scissione di una coppia (si chiama Tenco mentre la cagnolina rimasta alla madre Dalida), arriva ad accettare la nuova famiglia solo dopo questa edipica catarsi. Nel frattempo la ricerca del cane porta a meccanismi di causa ed effetto drammatici. L’incidente al fratello, nel momento molto scult della sua imitazione dell’uomo da sei milioni di dollari, il conseguente ritorno della madre all’ospedale costretta così a rivedere il padre e a parlarci.

Tutto dovrebbe essere visto con gli occhi di una bambina di nove anni, estensione della regista stessa, che in voce off racconta la sua famiglia imperfetta, Alma, dell’affiatamento con i fratelli più grandi e delle sue prime, tenere, farfalle nello stomaco. Un padre mediocre e assente, che si barcamena tra figli e la nuova relazione, a cui sono stati spediti, per i deliri religiosi e non, dalla vera madre. Ma il suo punto di vista non è coerentemente mantenuto, per esempio nella parte di fuga di Benedetta con fratello maggiore. Ancora una volta il conoscere nostro malgrado l’appartenenza sociale della regista fa ipotizzare un pudore nel raccontare un’infanzia dorata. La famiglia del film è certamente benestante ma non di cotanto lignaggio. Ginevra Elkann rende poi quel senso poliglotta, in cui si passa indifferentemente dal parlare in italiano, inglese, francese. Questo forse fa perdere l’occasione per un calligrafismo decadente alla Guadagnino, o per un’autoanalisi più sentita, come possono essere state quella di Valeria Bruni Tedeschi per È più facile per un cammello… o quella di Alina Marazzi per Un’ora sola ti vorrei. Quello che manca in Magari è un vero pathos per le cose della vita, un’empatia per il materiale trattato, così come un senso autentico di nostalgia per un’epoca, relegato a pochi elementi fuggevoli, come le canzoni Sarà perché ti amo, Se mi lasci non vale, Stella stai, o il telefilm L’uomo da sei milioni di dollari, la serie d’animazione Scooby-Doo, il film Vacanze di Natale (vero distillato degli anni Ottanta, questo sì, con i suoi simboli). L’estetica del film passa per una serie di maglioncini colorati, alla Milena Canonero per Danny di Shining, con i loghi dell’Hard Rock Cafe, o dell’Inca Kola.

Magari perde tutta una serie di treni per finire nel bozzettismo scialbo e superficiale all’italiana. Di Ginevra Elkann avevamo apprezzato il corto d’esordio, Vado a messa presentato a Venezia 2005, di grande ironia, secco. Evidentemente ha sofferto il passaggio al lungometraggio.

Info
Magari sul sito di Locarno.
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