Un figlio

Un figlio

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Presentato in Orizzonti a Venezia 76, Un figlio è l’opera prima del filmmaker tunisino Mehdi M. Barsaoui, che ritrae il suo paese nella fase più delicata della sua storia recente, quella post-primavera araba, momento gravido di aspettative e di timori. Il film è il quadro di una società contraddittoria, ancora dominata da un sistema patriarcale, ma soffre della voglia di mettere dentro tutto, traffico d’organi, terrorismo, bioetica.

Patria potestas

Tunisia, estate 2011. La vacanza nel Sud dei coniugi Fares e Meriem finisce in tragedia, quando il loro figlio di dieci anni viene colpito da un colpo di arma da fuoco in un’imboscata di una non identificata milizia. La vita del bambino è appesa a un filo: si deve trovare un donatore compatibile per un trapianto del fegato. L’analisi genetica della compatibilità genitori porta alla scoperta che Fares non è il padre biologico del bimbo. [sinossi]

Un picnic sui prati: i partecipanti discutono della situazione politica e temono la presa del potere dei movimenti islamici. Alcuni di loro vedono quel momento di spensieratezza e libertà, come uno degli ultimi. Siamo nell’estate del 2011 in Tunisia, in un clima dove l’euforia sta per essere soppiantata dall’incertezza. La Rivoluzione dei Gelsomini si è conclusa da pochi mesi con la destituzione di Ben Ali. Nella confinante Libia, la dittatura di Gheddafi era agli sgoccioli e il paese era già un grande baratro. Quel clima politico viene catturato nel film Un figlio, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 76, primo lungometraggio di fiction del regista Mehdi M. Barsaoui, tunisino con una formazione italiana, avendo studiato al Dams di Bologna. Barsaoui è stato peraltro montatore del documentario Era meglio domani, focalizzato sullo stesso argomento.

Un figlio è un’opera tecnicamente molto ben fatta che arriva dritta a uno snodo narrativo che permette al regista di far deflagrare una serie di contraddizioni ancora presenti nella società tunisina. La ricerca di un donatore compatibile per il trapianto di fegato, e le relative analisi genetiche dei genitori, permettono di scoprire l’adulterio commesso da Meriem, in quanto Fares non risulta il padre biologico del bambino. Da un lato il film è il ritratto di una società machista e patriarcale, dove il maschio comanda, dove il padre Fares detiene la potestà. La legge gli riconosce il potere di decidere le cure per il bambino, l’eventuale trasferimento da un ospedale all’altro. Il patriarcato riproduce il sistema politico che si incarna in una figura forte, in un padre della nazione. In quel momento la Tunisia aveva appena ucciso il proprio padre Ben Ali. Il dominio maschile però convive con una relativa liberà della donna. Meriem ha avuto una relazione sessuale forse solo occasionale. La sua ricerca del padre biologico, ancora ai fini del trapianto, si rivela difficile, non ha più il numero di telefono di quell’ex-partner. Non sembra essersi trattato di una relazione importante. E, a differenza di quanto avverrebbe in un paese mussulmano dove vige la sharia, il suo adulterio non ha conseguenze penali per lei.

Basterebbe questa struttura a fare di Un figlio un’opera interessante, di buona fattura. Ma il regista sembra essere preso dall’ansia di costruire un’opera a tesi e di incastrare tutta una serie di situazioni e temi che affollano eccessivamente il film. In questo Un figlio sembra seguire la scia di quel terzomondismo d’accatto di Cafarnao di Nadine Labaki, senza per fortuna scadere ai livelli di quel film. Corollario del ritratto di una società sciovinista è la scena in cui Meriem viene abbordata da un gruppo di ragazzi bulletti, che la scambiano per un’italiana. Il patriarcato e il dominio sulla moglie, di cui sopra, rappresentano un’altra faccia della medaglia rispetto al considerare la donna come sempre sessualmente a disposizione, con il beneficio però che debba essere straniera. Le donne tunisine sono invece inviolabili, se non per la procreazione, sono madri, fattrici. Quando Meriem, che veste abiti moderni e non porta il velo, parlando in arabo, mostra di essere tunisina, compare sullo sfondo una donna pesantemente velata. A ricordarci ancora la compresenza, nella società tunisina, di livelli sociali e gradi di istruzione molto diversi tra di loro.

La storia del film fornisce anche il destro per trattare temi bioetici, denunciando una cultura come quella musulmana, che prevede l’inviolabilità del corpo del defunto, e non è quindi compatibile con la donazione di organi. A questo Mehdi M. Barsaoui aggiunge anche il tema, in quella che vorrebbe essere un’ulteriore denuncia, del traffico d’organi dalla confinante Libia, messo in pratica da cinici mercanti della carne, che attingono la materia prima da bambini come stabulati in lager. Scadendo così in una fiera degli orrori.

Info
La scheda di Un figlio sul sito della Biennale di Venezia

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