Servants

Presentato nella sezione Encounters della 70 Berlinale, Servants è un film che, con elegante e calligrafica fotografia in bianco e nero, parla dei rapporti tra la chiesa e il regime nella Cecoslovacchia socialista negli anni Ottanta. Il regista slovacco Ivan Ostrochovsky inquadra un periodo oscuro della storia recente e con questo il fenomeno del collaborazionismo, che si presenta spesso e in varie forme, nella storia.

Il socialismo dal volto disumano

L’anno è il 1980. Michal e Juraj sono studenti di teologia al seminario nella Cecoslovacchia socialista. Dovranno decidere se rimanere fedeli ai loro ideali e precetti cattolici o se aderire a quella forma di compromissione tra clero cecoslovacco e regime che si incarna nell’organizzazione collaborazionista Pacem in Terris. [sinossi]

Come può sopravvivere la chiesa all’interno di un sistema di governo che teorizza l’ateismo di stato, come uno qualsiasi dei paesi che facevano parte del Patto di Varsavia? E quali provvedimenti può adottare un tale sistema per controllare quello che considera un corpo estraneo, ma che rappresenta una fetta importante della popolazione e che quindi non si può semplicemente reprimere? Conosciamo bene i fatti nella Polonia socialista degli anni Ottanta, che ricordano molto la situazione negli stessi anni della Cecoslovacchia, come raccontati in Servants (titolo originale: Služobníci), secondo lungometraggio di Ivan Ostrochovsky presentato alla sezione Encounters della 70 Berlinale.

Nel paese dove era stato ormai represso il socialismo dal volto umano della Primavera di Praga, il regime creò l’organizzazione collaborazionista Pacem in Terris infiltrata nelle alte gerarchie del clero, che poteva così controllare e manipolare. La resistenza prendeva la forma di una chiesa clandestina, con i preti che celebravano segretamente la messa in abitazioni private. Il collaborazionismo è un fenomeno che si ripete in ogni regime, con le stesse caratteristiche nei diversi colori politici o appartenenze, lo era per esempio per quella parte della popolazione di colore che collaborava con il regime dell’apartheid in Sudafrica, ottenendo qualche vantaggio.

Michal e Juraj sono due seminaristi che si trovano a dover prendere una decisione, se accettare l’omologazione e l’asservimento al potere e tradire così i propri ideali, o se entrare in conflitto con il regime che dispone di un apparato di controllo di spie estremamente pervasivo. Ivan Ostrochovsky mostra la connessione tra l’alto prelato e il macellaio dei servizi segreti, mostra la Pacem in Terris come un’associazione reazionaria, mostra i preti prelevati dal seminario o trovati morti. Struttura il film come un flashback facendolo iniziare con la scena dello smaltimento di un cadavere in una zona remota sotto un ponte, e facendo poi partire la narrazione a ritroso fino a che non avremo chiaro chi siano i personaggi coinvolti in quel rituale macabro, che si ripete con le stesse scene in modo sinistro, come l’auscultazione con lo stetoscopio del corpo in modo da assicurarsi che il cuore abbia cessato di battere, e l’azione di lavarsi successivamente le scarpe. Ivan Ostrochovsky ricrea così un clima di angoscia orwelliana, di tensione continua, palpabile. La paura continua di essere ascoltati che arriva alla scena grottesca, da Get Smart, dei due sacerdoti che parlano attraverso un tubo. La vita religiosa clandestina con l’ascolto di Radio Free Europe, l’emittente radiofonica creata in Germania Ovest per diffondere idee di democrazia e libertà e boicottare i paesi in orbita sovietica.

E per rendere questa atmosfera, il regista usa una fotografia in bianco e nero, contrastato, un’aspect ratio di 4:3, rifacendosi da un lato a Bela Tarr (richiamato palesemente nella scena della fisarmonica o in quella in cui un personaggio salta su un trampolino elastico come i bambini sul letto in Le armonie di Werckmeister), e dall’altro all’espressionismo cui rimanda anche come atmosfera di inquietudine della Germania prehitleriana. Un bianco e nero che raffredda da effetti spettacolari e gore, e allo stesso tempo intensifica in chiave drammatica, come nell’immagine di quella chiazza di sangue che si allarga che vede il protagonista sopra di sé, sdraiato in un letto a castello, indicando la morte del suo compagno. In abbinamento Ostrochovsky usa musiche che danno un effetto glaciale, straniante, kubrickiano, come nella scena del congresso di Pacem in Terris, del tutto simile a una grigia assemblea dei Soviet, seguita da un’immagine della luna che raccorda con il movimento circolare del gioco da ping pong nella variante collettiva, “a giro”.

Va detto che il film scade a volte nel lezioso, nella ricerca del preziosismo fotografico a tutti i costi, per esempio nell’immagine delle volte di scale riprese dal basso con effetto concentrico, o nelle riprese dall’alto di quel cortile del seminario dove gli studenti cominciano giocano a pallone e stendono i panni. Oppure nell’immagine di Cristo sovrapposta a quella della Madonna, che accompagna, con montaggio dialettico il momento in cui uno dei seminaristi è costretto a cedere e firmare un documento che lo condanna a diventare collaboratore. Per contro questi momenti ludici nel seminario, ancora alla Bela Tarr, raccontano della vita collettiva di questi ragazzi – i giochi sono sempre di gruppo compreso il ping pong che viene giocato tutti insieme a giro –, del loro peculiare coming of age, sospesi in un conflitto tra la propria vocazione da portare avanti fino in fondo e la tentazione, che non è quella dell’edonismo consumistico, ma quella del quieto vivere, della massificazione in un regime che schiaccia la popolazione. La composizione dell’immagine di Ostrochovsky raggiunge il suo apice in un breve momento finale, che è anche quello scelto per il manifesto del film, in cui tre dei seminaristi giocano a palle di neve sotto un grande monumento di torce. Si tratta di una parte del monumento di Buzludzha, in Bulgaria, fatto erigere un anno dopo i fatti raccontati nel film. L’immagine è evidentemente onirica, e arriva nel momento di disillusione in cui uno dei ragazzi brucia il lenzuolo macchiato di sangue del compagno ucciso, dopo aver visto il dossier su di lui dei servizi segreti. Le figure dei personaggi in un momento di svago si iscrivono in quell’architettura in stile sovietico, di celebrazione del socialismo, severa quanto decadente, simbolo di un potere che li ha schiacciati.

Info
La scheda di Servants sul sito della Berlinale.

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