Donnie Darko

Donnie Darko

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Quando uscì Donnie Darko Richard Kelly doveva ancora compiere ventisei anni. Il mondo del cinema statunitense si sperticò in lodi, parlando del miglior esordio dai tempi de Le iene e di uno dei talenti più cristallini visti da molti anni a quella parte. A quasi venti anni di distanza cos’è successo a Kelly, che cerca disperatamente di girare il suo quarto film dal 2009? E cosa significa tornare con la mente a quel piccolo cult-movie che mescola coming-of-age e fantascienza, buchi temporali e ossessioni oniriche?

It’s a very very mad world

Ottobre 1988. Giusto qualche settimana e gli Stati Uniti eleggeranno il loro nuovo presidente, uno tra George H.W. Bush e Michael Dukakis. Il motore di un aereo cade direttamente nella camera da letto dell’adolescente Donnie Darko, che però non si trova lì quando questo accade, per via del sonnambulismo. Da allora però un coniglio gigante gli appare in visione, preannunciandogli la fine del mondo di lì a 28 giorni. È un’allucinazione o c’è da preoccuparsi? [sinossi]

«Carneade! Chi era costui?», si chiede Don Abbondio ne I promessi sposi leggendo il panegirico in onore di San Carlo Borromeo. E di Carneade in effetti si serva ben poca memoria, se non che da filosofo scettico avversava tanto gli stoici quanto i metafisici: dopotutto i suoi scritti sono andati perduti, e anche quelli del suo principale discepolo, tal Clitomaco. Viene citato nel De re publica di Cicerone, e il suo discorso paradossale sull’impossibilità di coniugare saggezza e giustizia meriterebbe qualche approfondimento maggiore. Non è questa la sede in tal senso, e se lo si cita è solo perché tra tutti i carneadi della storia del cinema, recente o passata che sia, in pochi possono gareggiare testa a testa con Richard Kelly. Sono undici anni che Kelly non dirige un film: l’ultimo fu The Box, fantascienza tratta con grandi libertà dal racconto Button, Button di Richard Matheson. Una roboante costruzione sci-fi con tanto di alieni che mette in mezzo questioni filosofiche e morali non di poco conto ma non sempre sembra in grado di gestirne le derive. Quando lo girò Kelly aveva trentaquattro anni, era al terzo lungometraggio da regista e con ogni probabilità pensava che di lì a uno o due film avrebbe finalmente compiuto il triplo salto mortale in avanti, nella vasca dorata di Hollywood. Glielo diceva, ovviamente, quel Donnie Darko che nel 2001, quando il regista non aveva ancora compiuto ventisei anni, lo incoronò in patria come esordiente più talentuoso da almeno un decennio a quella parte, da quando cioè fece la sua apparizione sugli schermi di mezzo mondo Le iene di Quentin Tarantino. Che le ambizioni di Kelly fossero alte, e non del tutto in linea con lo status quo delle major apparve chiaro da subito, e fu ribadito dal tonitruante Southland Tales, per il quale gli vennero aperte perfino le porte del concorso di Cannes. Un disastro annunciato, visto che il film venne presentato prima che fosse terminato il lavoro di montaggio, e che si rivelò un vero e proprio boomerang per il giovane cineasta. E così, visto che anche il già citato adattamento del racconto di Matheson ripagò a malapena i costi di produzione, di Kelly si persero le tracce. Ogni tanto, quasi seguendo un moto ciclico, usciva qualche notizia in cui si parlava di un imminente ritorno sul set per colui che aveva strabiliato l’America nel 2001 – anno a dir poco fatidico per il cambio di rotta del Paese –, cui faceva seguito qualche settimana dopo una smentita. Di progetti annullati, abortiti, soppressi è piena Hollywood, ma Kelly ne ha inanellati un numero rimarchevole. Ma perché, a conti fatti, il mondo del cinema ha messo in un cantuccio questo regista senza dubbio promettente, e dal grande gusto visionario? E allo stesso tempo, che effetto fa tornare nel 2020 a Donnie Darko, pur nella versione estesa del 2004, quella che venne presentata anche alla Mostra di Venezia – la prima dell’era-Müller – come proiezione di mezzanotte?

Forse non è neanche il caso di specificarlo, ma il primo e principale nemico di Richard Kelly fu lui stesso, o per meglio dire la sua esuberante ambizione. Per quanto sia Southland Tales che The Box presentino ben più di un aspetto interessante, è indubbio che la matassa narrativa risulti debordante, al punto quasi da invadere campi altrui, e assoggettare l’intero impianto al proprio volere. Non c’è dubbio che Kelly sia un affabulatore, come dimostra in maniera plateale proprio Donnie Darko nel director’s cut (l’unica versione che abbia senso davvero vedere, come si capirà tra poco): maneggiando una materia tutta dominata dall’idea di visione, prevedendo varchi spazio-temporali, riflessioni quantistiche, allucinazioni diurne e notturne, e via discorrendo, Kelly vuole riuscire a spiegare ogni cosa, anche il dettaglio più insignificante. Se da un lato questo testimonia la volontà di tenersi a debita distanza dalla ciurma di lynchiani d’accatto che invasero l’indie-movie pensando che una qualsiasi bizzarria bastasse a tenere in piedi un film – e dimostrando quindi di non aver capito mai granché del cinema di David Lynch –, dall’altro costringe la sua creatura a una dialettica incessante. Si pensi alle tortuose vie che deve intraprendere per assimilare bene la questione relativa al viaggio nel tempo, per esempio. Donnie Darko è in realtà un film duplice: da un lato accetta in pieno la sfida visionaria, lanciandosi in un buco nero di lisergiche contro-realtà, e dall’altro decide di razionalizzarla fino alle estreme conseguenze. Ne viene fuori una materia a tratti oscura ma in ogni caso fascinosa, non semplice da maneggiare perché in perenne bilico tra il deliquio onirico e la scelta di (tentare di) tenere sempre in piedi il senso di ciò che sta avvenendo in scena – e non è casuale che il director’s cut inserisca proprio sequenze di dialogo prima tagliate. È come se l’esordio di Kelly fosse la materializzazione in celluloide del trattino che distanzia e unisce le abbreviazioni sci e fi. In questo bailamme universale, in cui si racconta la fine del mondo che dovrà arrivare “tra ventotto giorni”, c’è modo di perdersi in un brodo primordiale tanto narrativo quanto visivo, tra ralenti e carrelli che ancora una volta omaggiano Lynch, Notorius dei Duran Duran e The Killing Moon di Echo & the Bunnymen, qualche sapido cenno storico – la corsa alla Casa Bianca che vede contrapposti Bush padre e Michael Dukakis: vincerà il primo, ovviamente –, senza per questo smarrire mai davvero la stella polare che guida il regista, vale a dire il teen movie. La storia di Donnie Darko e dei ventotto giorni che sconvolsero il mondo (almeno il suo) è anche e forse soprattutto un tenero, disincantato e un po’ depresso coming-of-age, il racconto di una crescita e di una storia d’amore, per quanto sui generis. In questo senso la scelta di cast, da un lato Jake Gyllenhaal (c’è anche la sorella Maggie a interpretare, indovinate un po’, la sorella maggiore di Donnie) e dall’altro Jena Malone, si dimostra veramente brillante.

Salutato all’epoca da peana critici eccessivi, e forse proprio per questo rivalutato al contrario con troppa crudeltà con il passare degli anni, Donnie Darko è un esordio a tratti imperfetto e affascinante, effettivamente coraggioso e del tutto deciso a non seguire un tracciato normato, o di facile assimilazione, e di questo sarebbe doveroso dargliene atto. A tratti cinematograficamente logorroico, Kelly è però un regista dallo sguardo studiato, non banale, cinefilo senza essere pedantemente citazionista. Ha il difetto semmai di mettere troppa carne al fuoco – e questo aspetto tornerà anche nei due film successivi – e di non saper rinunciare alle sottotrame, anche quando in evidenza non troppo essenziali. Ma in quest’opera prima viene naturale perdonargli praticamente tutto, ed è davvero un peccato che Hollywood stia perdendo l’occasione di investire in un cineasta con un’idea di visione così personale, e non prona alla catena di montaggio. Pochi anni fa si espresse in suo favore Kevin Smith, paragonando Kelly a un Christopher Nolan che non ha le major a guardargli le spalle. Probabilmente è vero, il nocciolo della questione potrebbe essere tutto lì. Carneade, così viene riportato dalle fonti classiche, notava una differenza tra ciò che non era evidente e ciò che non era comprensibile. Se tutte le cose sono incomprensibili, asseriva, non è detto che siano anche non evidenti. Ciò che non è vero, concludeva, è in ogni caso probabile. L’evidenza del talento di Richard Kelly è davanti agli occhi di chi vuol vedere da quasi venti anni, anche se le sue scelte spesso possono apparire incomprensibili. A quarantacinque anni, ancora giovane, il regista aspetta che questa verità sia rivelata. Pena la trasformazione definitiva in Carneade.

Info
Il trailer di Donnie Darko.

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