Il principe di Roma

Il principe di Roma

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Con Il principe di Roma Edoardo Falcone prende la struttura narrativa di Canto di Natale di Charles Dickens e la immerge nell’humus culturale del marchese del Grillo. Ne viene fuori una commedia graziosa, più di scrittura che di regia e di messa in scena, dominata da un bravo Marco Giallini. Alla Festa di Roma nella sezione Grand Public.

A Roman Carol

Roma, 1829. Bartolomeo è un uomo ricco e avido che brama il titolo nobiliare più di ogni cosa. Nel tentativo di recuperare il denaro necessario a stringere un accordo segreto con il Principe Accoramboni per ottenere in moglie sua figlia, si troverà nel bel mezzo di un sorprendente viaggio a cavallo tra passato, presente e futuro. Affiancato da compagni d’eccezione dovrà fare i conti con sé stesso e conquistare nuove consapevolezze. [sinossi]

Esistono film che vengono costruiti seguendo precetti chiari, con la stessa attenzione che si presterebbe nel seguire una ricetta, facendo bene attenzione al misurino e con l’unica preoccupazione di sbagliare le dosi indicate. Non che sia necessariamente un male, sia chiaro: nella sua forma più prettamente industriale il cinema può ricorrere allo stampino, con la speranza che il piatto originale venga riproposto nel modo più fedele possibile, eppure rimarcando una propria piccola identità. Si tratta di quello che un tempo sarebbe stato definito prodotto medio; se ci si riferisce al passato è perché, almeno per quel che riguarda l’Italia, un simile approccio sembra essere passato di moda. Chissà, magari si è smarrito lo stampino, o forse chi ha in mano le redini della produzione nazionale (quella “di peso”, quella che accede al tax credit, quella che rientra nell’idea di mainstream) si è dimenticato le regole base dell’industria, e del suo senso. Fatto sta che le commedie italiane, da sempre fiore all’occhiello del nazional-popolare, sono a loro volta un lontano ricordo: oramai l’unico sforzo creativo sembra quello di acquistare i diritti di sfruttamento di un film “straniero”, con predilezione per Francia e Spagna, e architettare un remake. La crisi dell’immaginario passa anche per l’indolenza e la pigrizia intellettuale. Per questa serie di motivi è difficile essere severi con un film come Il principe di Roma, nuova regia per Edoardo Falcone, fino a questo momento responsabile di una filmografia non proprio indimenticabile (Se Dio vuole, Questione di karma, Io sono Babbo Natale). È vero, si tratta di un film che rimarca la scarsa ispirazione di Falcone per quel che concerne la messa in scena, come testimoniano le sequenze che dovrebbero sulla carta essere più suggestive (l’incontro notturno con la megera nel luogo in cui sono sepolti tutti i condannati a morte, le apparizioni dei tre fantasmi), eppure per una volta vince la clemenza, e viene naturale soprassedere.

Si torni al principio del film strutturato seguendo gli ingredienti come si trattasse di una ricetta. Nel caso de Il principe di Roma le dosi sarebbero davvero semplici: su una base dickensiana porre a mo’ di contorno una spruzzata di marchese del Grillo. Facezie a parte, si tratta davvero di questo. L’ambientazione d’altronde non mente, la Roma papalina del 1829, venti anni dopo i fatti raccontati da Mario Monicelli nel celebre film con Alberto Sordi. Ancora meno mente la struttura narrativa, che senza prendersi molte libertà riproduce lo schema portante di A Christmas Carol, tra i classici di Charles Dickens forse il più studiato, amato, riproposto, preso a modello. Così fa anche Falcone, che lancia il suo “quasi” nobile Bartolomeo Proietti da tutti chiamato “sor Meo” (per diventare principe dovrebbe sposare la figlia di un nobile pieno di debito, la quale però lo detesta innamorata com’è del suo maestro di pianoforte) nelle braccia di tre fantasmi che hanno il compito di rammentargli il passato, ribadire il presente, e raccontare il futuro. Dopotutto Meo non è certo orgoglioso della sua arida esistenza, anche se tutto fa propendere per il contrario, considerata la sprezzante sicumera che l’uomo mostra in ogni occasione, arrivando a chiedere dove sia una cassetta contenente diecimila scudi a un uomo che ha già la testa infilata nel collare di legno in attesa che la lama della ghigliottina piombi su di lui. Sono questi gli elementi più divertenti del film, grazie anche alla sorniona e cinica espressione che Marco Giallini (meno gigione delle ultime occasioni in cui si era visto sul grande schermo, o forse semplicemente in un ruolo che giustifica in modo maggiore l’essere sopra le righe) sfoggia per tutto il film.

L’intuizione di affidarsi alla struttura narrativa di Dickens è intelligente, perché il canone sgrava Il principe di Roma da responsabilità di consecutio logica permettendogli di indagare soprattutto gli anfratti della romanità storica, altra rivendicazione evidente dato che il film si apre su un esergo contenente una citazione di Giuseppe Gioachino Belli, il cantore per eccellenza della cultura capitolina, cui attingeranno tutti in città, da Cesare Pascarella a Trilussa. Così Falcone, conscio che la narrazione procederà in stato di grazia (con tanto di figlioletto malato non di un dipendente ma di colui al quale il fornaretto Meo scippò il locale alla prima occasione utile), si limita a puntellare la descrizione d’insieme, con un gusto per la teatralità popolana che non si trasforma in cinema ma ha il pregio di intrattenere. Non si raggiungono ovviamente i fasti di Luigi Magni, ma dopotutto anche l’ambizione è assai più ridotta: non è però balzana l’idea di far incontrare come fantasmi al malcapitato Meo Beatrice Cenci (che si occupa del passato del protagonista, da cui dipende l’elemento scatenante che lo indirizzò verso la cupidigia, e l’insensibilità), Giordano Bruno (il presente di Meo, che scopre di non aver nulla compreso del mondo che lo circonda e che crede a suo modo di dominare – ha prestato soldi a mezza Roma), e Alessandro VI, più noto come “Papa Borgia” (il futuro di Meo, dove si racconta anche della breve ma entusiasmante esperienza della Repubblica Roma del 1849, con l’uomo anziano ovviamente dalla parte sbagliata della barricata). Tre figure storiche che hanno un peso notevole nella storia e anche nel folklore di Roma, e che in qualche modo reclamano quella modernità che Meo Proietti, come il suo emblema letterario Ebenezer Scrooge, rifugge con pervicace ostinazione. Inutile soffermarsi sui dettagli della storia e i suoi sviluppi, perché la fedeltà alla trama originale si sa già in che direzione si muoverà. Al di là del divertimento scaturito da alcune situazioni e dalla sapidità del romanesco – che nella sua scorbutica schiettezza ben si presta a una commedia simile – a essere apprezzabile è il tentativo di tornare a un cinema “medio”, senza aspirazioni autoriali ma con la consapevolezza di poter garantire un buon artigianato; semmai la speranza è che Falcone sfrutti meglio in futuro le potenzialità della messa in scena, qui ancorata a una basicità abbastanza frustrante.

Info
Il principe di Roma, il trailer.

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