Ritorno a Seoul

Ritorno a Seoul

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Presentato a Cannes 2022 nella sezione Un Certain Regard, Ritorno a Seoul è il secondo lungometraggio di finzione di Davy Chou. Il regista mette in campo la storia di una ragazza, abbandonata in tenera età, alla ricerca delle proprie radici in un paese a lei straniero. Una ragazza che vorrebbe tanto non aver bisogno di nessuno, ma che non può fare a meno di fare i conti con se stessa e le sue origini.

Io ballo da sola

Freddie, venticinquenne impulsiva e testarda, torna in Corea del Sud per la prima volta da quando, appena nata, è stata adottata da una coppia francese. Qui inizia a cercare i genitori che l’hanno abbandonata. Tra incontri, nuove amicizie e l’ombra di una madre biologica che non vuole farsi rintracciare, la ragazza si trova immersa in una cultura molto diversa dalla sua e intraprende un viaggio nel viaggio che la porterà in direzioni del tutto inaspettate. [sinossi]

La perdita. L’abbandono. Gli incontri mancati. Il vagare da un luogo a un altro cercando il proprio posto nel mondo. Sono questi i temi principali di cui si occupa Davy Chou, nato in Francia da genitori cambogiani, espatriati per sfuggire al regime dei Khmer rossi. Se il suo Golden Slumbers (Le sommeil d’or, 2011) era un documentario “identitario” sul cinema cambogiano, un cinema di cui non sopravvivono che pochi titoli (la perdita, appunto), nel suo primo film di finzione Diamond Island (2016) il giovane protagonista si trova invece alle prese col difficile compito di cercare di colmare il buco lasciato dalle figure maschili della sua famiglia: un padre inesistente (presumibilmente morto) e un fratello al tempo stesso presente e assente, figura suadente quanto evasiva, la personificazione di tutte le illusioni e le vuote promesse della globalizzazione da cui entrambi si lasciano irretire nell’isola cambogiana del titolo, “gentrificata” e per ricchi dove, dopo anni, si ritrovano.

In questo secondo lungometraggio, invece – presentato a Cannes, come il precedente, ma stavolta nella sezione Un Certain Regard –, Davy Chou prende a prestito la storia di una sua amica ed ex compagna di studi, Laure Badufle, di origine coreana ma nata anche lei in Francia e ritrovatasi poi a lavorare per un’azienda di vendita di armi. Ritorno a Seoul si svolge interamente in Corea del Sud, in tre periodi differenti della vita della protagonista. Significativamente, non ci è mai dato di osservarla quando è Francia, ma soltanto lì, nel suo paese d’origine, dal quale fu allontanata non appena nata per essere affidata a una famiglia francese. Tuttavia, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, il suo modo di approcciare questo territorio estraneo è quello di un elefante in una cristalleria. Sin da subito, Frédérique, detta Freddie – 25 anni, bella e dai tratti propriamente coreani, quasi ancestrali, come le dice con ammirazione una ragazza del luogo – si mostra insofferente alle regole e alle formule di cortesia in uso. I suoi sguardi sono sfrontati e derisori, i suoi sorrisi spesso feroci: Freddie sembra godere dell’imbarazzo che provoca nei suoi interlocutori e nel creare sorpresa o scompiglio intorno a sé. Ma tutto questo non è che una maschera, una strategia di difesa, o meglio, di sopravvivenza.

Quel primo viaggio, che sembra del tutto casuale (ai genitori adottivi aveva detto che partiva per il Giappone…), ha in realtà un intento ben preciso: conoscere, o meglio affrontare, i suoi genitori biologici. Questo avvicinamento, tutt’altro che indolore, e che che procede per sussulti e ripensamenti, le richiederà ben tre viaggi nel corso di circa dieci anni. Ma anche così, riuscirà solo in minima parte a soddisfare il suo bruciante bisogno di ricucire quello strappo, di approdare a un vero contatto. Un contatto reso difficoltoso, in prima istanza, dall’estremo divario linguistico e culturale, oltre che generazionale. È un vero e proprio trauma, quello che Freddie si porta dentro, una sofferenza straziante, un sordo ma bruciante “perché?” senza risposta che solo chi è stato abbandonato dai propri genitori può arrivare a comprendere. Ma a tutto questo caos interiore, Freddie replica inscenando la propria pretesa di libertà e di non appartenenza a niente e a nessuno: mentre si trova in uno dei tanti soju-bar che frequenta con gli amici del luogo, la ragazza si scatena sulle note di un canzone il cui ritornello recita I never needed anybody (“non ho mai avuto bisogno di nessuno”). Ovvero, io ballo da sola.

Ancora una volta il regista si concentra empaticamente sui propri personaggi utilizzando primi piani e focali lunghe che li isolano dal paesaggio. Se in Diamond Island l’elemento di alienazione e di impossibie appartenenza era materializzato da sontuosi edifici pensati e costruiti per gente “altra” (e poco importa che fossero cambogiani anche loro) che i personaggi, di tanto in tanto, si fermavano ad osservare letteralmente spaesati, qui le varie città attraversate dalla protagonista (Seoul, Gunsan e Jeonju) rimangono sullo sfondo, evidenziando in maniera efficace come, fondamentalmente, per la ragazza tutto si confonda e si equivalga, persino, possiamo ipotizzare, la “sua” Francia che non vediamo mai. Ma anche quando ha modo di soffermarsi ad osservarli, quei luoghi, il sentimento di estraneità della protagonista si fa ancora più evidente: è il caso della bellissima sequenza in cui, riluttante, Freddie acconsente ad andare insieme al padre biologico a visitare una località marittima in cui andava a giocare da bambino: un’isoletta talmente minuscola e insignificante da meritare il nomignolo di “cacca di topo”. Freddie scruta quel sasso nel mare e ascolta il racconto commosso di quell’uomo, ex pescatore e figlio di pescatori, ma non prova assolutamente nulla, se non il desiderio di andarsene via il prima possibile.

Ritorno a Seoul è un film che funziona soprattutto grazie a un’accurata costruzione del personaggio principale, una costruzione “corale”, avvenuta grazie non solo alle memorie di Laure Badufle (ricostruite, secondo quanto asserito dal regista, con una certa fedeltà, compresa la questione della vendita delle armi), ma anche ai suggerimenti della sua giovane interprete, Park Ji-min, al suo debutto davanti alla macchina da presa. La quale riesce a rendere con estrema pienezza il magma di emozioni e sentimenti contrastanti che smuovono il suo personaggio. Inizialmente, Freddie appare decisa ad abbattere ogni barriera e sembra aperta e disponibile a ogni incontro, che avvenga casualmente o tramite Tinder. Nella prima scena, approdata nel suo albergo a Seoul, chiede a una ragazza che poi diventerà sua amica, Tena (Guka Han, scrittrice e anche lei al suo debutto) se può farle sentire la musica che sta ascoltando in cuffia: una confidenza “estorta” e decisamente insolita, ci dice la faccia sorpresa della sua interlocutrice. Più avanti, è sempre Freddie a prendere qualsiasi iniziativa sessuale, sia con maschi che con femmine, relazioni che difficilmente riescono a rimanere in piedi per più del tempo necessario a Freddie per distrarsi. Persino durante il suo secondo viaggio, quando la ragazza torna a Seoul accompagnata dal gentile e simpatico compagno francese, Maxime (Yoann Zimmer), dopo un nuovo incontro con il padre, mentre sono in taxi, Freddie a un certo punto si rivolge a lui e, senza apparente motivo, gli dice: “Potrei cancellarti dalla mia vita con uno schiocco di dita”. Ed ecco perché, dopo una serata passata a bere e ad allontanare da sé un ragazzo coreano che ha commesso l’imperdonabile errore di innmorarsi di lei, Tena le dice seccamente “Sei una persona triste”. E lo è, triste, Freddie. Perché il padre biologico non fa che bere e tormentarla con messaggi in coreano che lei non può tra l’altro capire, mentre la madre ha fatto sapere all’Istituto Hammond – tramite cui sua figlia l’ha contattata – che non vuole saperne di lei. Anche la colonna sonora sembra accuratamente pensata e composta per portare in superficie questo subbuglio interiore della protagonista, per mezzo di toni spesso dissonanti, come un incessante rumore di fondo: suoni che non arrivano mai in primo piano, che non espolodono mai, come le emozioni più profonde di Freddie, sempre contenute e represse.

L’attore che interpreta il padre coreano di Freddie è il caratterista Oh Kwang-rok, volto noto soprattutto per la sua partecipazione a tutti e tre i capitoli della “Trilogia della Vendetta” di Park Chan-wook. Una figura che, seppur patetica e sgradevole nel riversare il suo senso di colpa sulla figlia ritrovata, ci mostra però tutta la sua fragilità, la sua disperata sincerità. Oltre a lui, nei panni della sorella dell’uomo che gli fa da interprete in uno stentatissimo inglese, c’è Kim Sun-young, un’altra attrice coreana famosa in patria soprattutto per i suoi ruoli in diverse serie TV.

Info
Ritorno a Seoul, il trailer.

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