Patagonia

Patagonia

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Nell’esordire alla regia con Patagonia Simone Bozzelli trascina con sé l’esperienza fatta sia con i cortometraggi che con i videoclip, e affida a un paesaggio scarno e brullo la relazione servo-padrone che instaura tra i suoi due protagonisti. Un’opera prima che mostra in nuce un autore dai contorni assai definiti. In concorso a Locarno e ora in sala.

Il signor Agostino e il suo servo Yuri

Yuri ha vent’anni e vive con l’anziana zia una vita ovattata nel grembo del piccolo paese abruzzese che è tutto il suo mondo. A una festa di compleanno incontra Agostino, animatore girovago e incantatore di bambini, che gli promette l’indipendenza che Yuri non sapeva di stare cercando. Sognando la libertà della Patagonia, i due partono per un viaggio di autodeterminazione che si trasformerà in un delirio di controllo e prigionia. [sinossi]

Nello squadernare le opere prime italiane viste in questi primi nove mesi dell’anno (a breve arriverà l’infilata degli esordi degli attori, da L’ultima volta che siamo stati bambini di Claudio Bisio a C’è ancora domani di Paola Cortellesi e Palazzina LAF di Michele Riondino, in un tracciato già percorso da Micaela Ramazzotti e dal suo Felicità) ci si imbatte in un nucleo di opere che sembrano in qualche misura parlarsi, tanto dal punto di vista produttivo quanto per quel che concerne il discorso sull’immagine, e sul suo senso. Certo, si correrebbe il rischio di semplificare eccessivamente la questione nell’inserire nel medesimo calderone i vari – in ordine di apparizione festivaliera da gennaio 2023 – Disco Boy di Giacomo Abbruzzese, Le proprietà dei metalli di Antonio Bigini, Non credo in niente di Alessandro Marzullo, Patagonia di Simone Bozzelli, Gli oceani sono i veri continenti di Tommaso Santambrogio, Una sterminata domenica di Alain Parroni, eppure appare evidente come vi sia in corso all’interno del sistema produttivo italiano un tentativo di creare una nuova generazione di registi in grado di calcare il proscenio europeo e internazionale mostrando un’identità ben precisa. Alcuni elementi paiono ricorrenti, dall’utilizzo della pellicola in luogo della videocamera digitale fino alla rappresentazione di mondi fuori dai contorni prestabiliti, o maggiormente usurati. In tal senso persino la Roma eternamente notturna raccontata da Marzullo riecheggia di fantasmi wongkarwaiani, a dimostrazione della volontà di uscire dai canoni del cinema d’auteur nazionale degli ultimi due decenni – a voler essere onesti una via similare l’aveva introdotta nel 2020 Gipo Fasano con il suo Le Eumenidi, ben lontano però produttivamente dai fasti economici di alcuni dei titoli sovra citati. Si vedrà in tal senso nei prossimi mesi che direzioni prenderanno gli esordi di Edgardo Pistone (Ciao bambino), Margherita Vicario (Gloria!), Valerio Ferrara (Il barbiere complottista, evoluzione/rivisitazione del corto premiato alla Cinefondation di Cannes), Federico Russotto (L’avversario), Giulio Donato (Labirinti), nonché dei sodali Micol Roubini (Alida in fiamme) e Davide Maldi (Amerika).

In questo parterre Simone Bozzelli rischia già di apparire come colui che è arrivato, visto che Patagonia – presentato in anteprima mondiale nel concorso di Locarno e ora a disposizione delle sale italiane – si muove nella medesima direzione che il giovane cineasta aveva mostrato di voler seguire tanto nei lavori didattici brevi quanto nel mondo del video puramente nato a scopo commerciale. Se infatti il nome di Bozzelli gli addetti ai lavori lo hanno “scoperto” alla SIC@SIC, concorso di cortometraggi della Settimana Internazionale della Critica di Venezia, dapprima con la selezione di Amateur e quindi con quella di J’ador – che la sezione la vinse nel 2020 –, il pubblico ci si è volente o nolente scontrato in qualità di regista del videoclip che ha agevolato il lancio del singolo dei Måneskin I Wanna Be Your Slave; ed è a suo modo sorprendente come Bozzelli sia riuscito a rintracciare anche nella canzone della band capitolina legami in grado di ricondurre il tutto a un immaginario a lui più prossimo, dove la vittima è ammaliata dal carnefice e il gioco di subalternità tra padrone e schiavo sono all’ordine del giorno. Una linea poetica che esplode in modo definitivo proprio in Patagonia, punto di partenza che è a suo modo forse anche un arrivo, la prima tappa conclusa di un percorso autoriale in divenire ma che mostra già le idee estremamente chiare, al punto da risultare in qualche passaggio perfino didascalico, o addirittura “di maniera”. La storia del ventenne Yuri che abbandona il piccolo paese dell’Abruzzo in cui è sempre vissuto sotto l’egida (amorevole, per carità) di tre zie per andar dietro all’animatore di feste per bambini Agostino, che l’ha affascinato da subito, mostra da subito la netta distanza esperenziale e psicologica tra i due personaggi. Agostino conosce a menadito la propria esistenza, sa dove e come collocare il proprio corpo, e sa dominare; a Yuri viene naturale, colto da fascinazione, essere dominato.

Se alcune dinamiche relazionali tra i personaggi seguono uno schema predetto fin troppo facile da prevenire una volta colta la natura tossica del rapporto che avvince Yuri al suo amato carnefice, Patagonia ha la qualità di non accettare in nessuna occasione l’idea di stasi. Se i suoi personaggi sono bloccati in un rapporto che non ha sbocchi, e allo stesso tempo la comunità pseudo-circense in cui si ritrovano rappresenta un non-luogo per eccellenza, un po’ come la regione desertica del sud dell’Argentina che presta il titolo al film, Bozzelli muove il candido e non troppo brillante Yuri sempre in avanti, come se non esistesse un ritorno possibile. Il suo viaggio dell’eroe – e il film non disdegna sottolineature favolistiche nella struttura narrativa, con Agostino che veste in qualche misura i panni di Lucifero in qualità di traviatore della normalità di Yuri – non prevede una casa a cui tornare, ma solo la continua spinta ad andare avanti, a muoversi un passo più in là. A volte troppo indulgente in alcune scelte che appaiono programmate e quindi depotenziate nell’utilizzo in scena (anche l’utilizzo di elementi quale il fuoco, ad esempio, pare calcolato, e dunque meno in grado di sconvolgere la prassi dello sguardo), Bozzelli mostra però un amore dolce e furibondo per i suoi personaggi – e bravissimi sono sia Andrea Fuorto che Augusto Mario Russi – e nonostante il cascame di riferimenti fassbinderiani ha l’intelligenza di non porsi in relazione con un paragone che lo schiaccerebbe in modo inevitabile, preferendo incollarsi ai volti e ai corpi di Yuri e Agostino e far sì che quella carne pulsante in scena entri in conflitto con un panorama brullo e già sconfitto in partenza. Quel che ne viene fuori è un’opera prima coraggiosa, viva, che evidenzia le potenzialità espressive di un cineasta che può scavare ancora più a fondo nel relitto di un’umanità forse malata, sicuramente riottosa. Si attendono conferme in tal senso.

Info
Patagonia sul sito di Locarno 2023.

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