Inizio di primavera

Inizio di primavera

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Distribuito dalla lodevolissima Tucker Film tra gli undici titoli selezionati per l’omaggio Dedicato a Ozu, in occasione dell’anniversario della nascita e della morte (sì, in entrambi i casi, il 12 dicembre) del più giapponese dei registi giapponesi, Inizio di primavera ci riporta nei territori della crisi coniugale e della vita dei salaryman, colonna portante del Giappone postbellico. L’ennesima splendida variazione sul tema di Ozu, col suo cinema immediatamente riconoscibile, imitabile ma irriproducibile, rarefatto e struggente.

(Nonostante) lo scorrere del tempo

Tokyo. Un giovane impiegato ha una relazione extraconiugale con una collega, e si allontana sempre di più dalla moglie. Quando quest’ultima ha la conferma che il marito le è infedele lo abbandona. Sullo sfondo, la vita disillusa del salaryman giapponese fra l’ufficio e gli obbligatori contatti sociali… [sinossi]
Vecchi o nuovi, gli uomini non cambiano mai.
– la (saggia) madre di Masako.

Il cinema di Yasujirō Ozu, forse più di qualsiasi altro, ci mette di fronte alla relatività del tempo, a questo scorrere inesorabile che sembra seguire diverse velocità e che, in alcuni miracolosi casi, sembra invece quasi fermarsi. Perché, guardando Inizio di primavera, la sensazione è che l’attualità di questa pellicola non sia mai sfiorita, nonostante i decenni passati, i mutamenti culturali e sociali, le metamorfosi della società nipponica, lo sgretolarsi del matrimonio tradizionale, della solidità dei salaryman e tutto quel che segue. Col suo cinema che guarda al passato, raccontando il presente e scrutando il futuro, Ozu si è assicurato non solo un’evidente immortalità (al di là di Viaggio a Tokyo, la sua opera trainante, grimaldello per scardinare gli argini cinefili occidentali) ma anche l’inusuale potere magico di essere attuale, oggi e domani, con dei film del secolo scorso, del millennio passato.

Il segreto di Ozu e di Inizio di primavera si cela probabilmente in questa imitabile ma irriproducibile alchimia tra realismo e formalismo, in questo punto d’incontro tra la vita, l’arte e le forme geometriche, architettoniche. La giusta distanza, la misura, la capacità di cogliere nei minimi gesti l’abisso dei sentimenti, dall’infatuazione alla disperazione: il cinema di Ozu, costante nella sua perfezione perché fedele a un’idea precisa e minuziosamente calibrata, si sussegue lungo una linea immacolata di variazioni sul tema, lungo una filmografia corposa (anche se dolorosamente incompleta). Tutta questa tradizionale quanto modernissima futuristica bellezza la ritroviamo con sorprendente puntualità in qualsiasi scena, in ogni fotogramma, in ogni sospiro, stacco, raccordo. Ad esempio, nella sequenza del confronto tra i due giovani coniugi Sugiyama, quando oramai tutto è chiaro, il dolore di Masako è lancinante e la colpa di Shoji incancellabile: due inquadrature ovviamente frontali, prima Shoji e poi Masako, entrambi in silenzio, entrambi in frantumi; lei si alza di scatto, si gira, esce dalla stanza; per un attimo, breve ma significativo, Ozu concede alla stanza vuota l’inquadratura, poi entra Masako, di spalle. La mano sul volto, un accenno di pianto, poi Masako spegne la luce e si inginocchia sul letto. Sola. Come è solo Shoji. Silenzio e vuoto, quadri fissi che gli attori non sovraccaricano. Lo stacco di montaggio ci porta alla mattina successiva, a una nuova giornata di lavoro, alla transumanza dei salaryman. Al quartiere che si svuota. Tutto uguale, tutto diverso (e senza treno). Il cinema di Ozu. La giusta distanza. La misura del proprio sguardo sul mondo.

Tutto questo continua a pulsare, a essere vivissimo, nonostante lo scorrere del tempo. La frase è presa in prestito da Le sorelle Munekata («La vera novità è ciò che non invecchia nonostante lo scorrere del tempo»), perché la filmografia di Ozu è un continuo ritorno, uno slittamento, una rielaborazione. È il racconto della vita, delle sue variazioni a volte impercettibili. Lo stesso film, ogni volta diverso. E allora si beve, si dialoga frontalmente, i treni passano, l’occhio della macchina da presa è ad altezza tatami, le performance attoriali (anche tra i volti, quanti eterni ritorni) partono dalla sottrazione, da un minimalismo che permea tutto e che è il filtro trovato e scelto da Ozu per raccontare il suo tempo e il suo Giappone.
A cavallo tra Viaggio a Tokyo (1953) e Crepuscolo di Tokyo (1957), Inizio di primavera esce nelle sale nipponiche in una fase di profondo cambiamento, col grande pubblico che manifesta un interesse calante rispetto al cinema di Ozu, in generale al cinema dei padri, e con la nūberu bāgu che inizia fare capolino coi film di Kō Nakahira (La stagione del sole, 1956) e Yasuzō Masumura (Kisses, 1957). Ad esempio, due anni dopo, Masumura realizza Giants and Toys, una satira sulle grandi compagnie: un ottimo film, un notevole e spesso trascurato regista, ma la sguardo di Ozu sondava altri brandelli di realtà, meno spettacolari ma più sostanziali. Ecco, un altro segreto della poetica e della filmografia di Yasujirō Ozu, qui ancora una volta in compagnia del fedele sceneggiatore Kōgo Noda, è di essere arrivato all’essenza, al nucleo spogliato di qualsiasi inutile sovrastruttura narrativa ed estetica: i personaggi che osserviamo, le emozioni che riusciamo a cogliere, sono portatori degli stessi significati, ieri come oggi. Come domani. E la sottrazione stilistica, in un’arte che vive di continue sperimentazioni, è probabilmente l’unica forma destinata a non invecchiare mai.

Se le pellcole di Ozu, debitamente restaurate, non mostrano rughe di nessun tipo, è innegabile la componente nostalgica che le attraversa. Ad esempio, la lunga macrosequenza finale di Inizio di primavera, dalla scena con la canzone Hotaru no hikari (La luce delle lucciole) al dialogo sotto il ponte coi giovani canottieri che scatenano rimpianti, fino al ricongiungimento di Shoji e Masako, tra ciminiere fumanti e un treno che (finalmente) corre lungo i binari – sì, un nuovo giorno può iniziare e tre anni non saranno poi così lunghi. Il mono no aware deflagra silenziosamente e ogni tassello occupa il proprio posto, esattamente quello che dovrebbe occupare, non prima, non dopo. In questa costante e rigorosa stilizzazione e spoliazione, impressiona ancor di più lo sguardo geometrico di Ozu sulla città, la sua mappatura topografica, con dei quadri che riescono a essere persino commoventi grazie anche alle sottolineature musicali di Takanobu Saitō. Una commozione intrisa di un’adesione nostalgica apparentemente inspiegabile, quasi paradossale, frutto sempre seducente della compenetrazione nella poetica di Ozu di tradizione e modernità: una sensazione che dovrebbe essere aliena a uno spettatore occidentale, soprattutto del nuovo secolo e millennio, ma che da sempre si rivela uno dei più efficaci grimaldelli del cinema di Ozu. Ed è tra queste vedute cittadine, paesaggi architettonici che non contemplano la presenza umana (o quasi, al limite in campo lunghissimo), che ci si arrende a un cinema miracolosamente leggiadro, eppure così umanamente denso. E alla fine ci si ritrova a fischiettare Hotaru no hikari, che poi è una variazione della canzone Auld Lang Syne del poeta e compositore scozzese Robert Burns: le stesse note del capolavoro natalizio di Frank Capra, ma questa è la realtà e la vita non è meravigliosa. Però si affronta, meglio se in due.

Inizio di primavera ci mette di fronte alla crisi coniugale, al desiderio che divampa, alle grandi aziende come seconda casa, fuori scala, una sorta di abnorme famiglia, un patto sociale che negli anni Cinquanta era ancora solidissimo, apparentemente inscalfibile – e chi mai avrebbe potuto far barcollare quei palazzoni così imponenti? Chissà come Ozu avrebbe raccontato il declino dei salaryman, diventati persino macchiette da canzonare. Qui coglie tutta la disillusione di una vita inscatolata, sfuggita tra le dita, come al collega prossimo alla pensione o a Miura, scomparso all’improvviso.
E poi la morte del figlio, raccontata con straordinario pudore, suggerita lungo la pellicola dall’assenza di bambini – tra i viottoli del quartiere ci si aspetta di vedere qualche bimbetto, come sarà nello splendido Buon giorno, ma non saltano mai fuori, sono un rimosso tragico.
Legata a doppio filo alla scelta di esprimersi in simbiosi con la struttura razionale delle case nipponiche, che per ampiezza e versatilità delle porte scorrevoli sembrano pensate come set prima ancora che abitazione (con inevitabili rimandi al teatro, quindi alla tradizione, in un dialettica infinita tra livelli di messa in scena e lettura), la profondità di campo di Ozu è anche e soprattutto profondità di sguardo, analisi, racconto, descrizione: si pensi, ad esempio, a tutta l’ampia parte dedicata allo svelamento dell’infedeltà coniugale, ai non detti che vengono esplicitati, alle dinamiche tra la coppia, l’amante, gli amici e conoscenti. Un mosaico di reazioni e relazioni umane che frammento dopo frammento ricompone la coppia, il matrimonio, la famiglia. Il dramma in Ozu è sempre misuratissimo, trattenuto, fedele a una poetica che si è fatta (visione del) mondo.

Info
Il progetto dedicato a Ozu sul sito della Tucker.
La scheda di Inizio di primavera sul sito della Tucker.

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