Il ginocchio di Claire

Il ginocchio di Claire

di

Quinta e particolarmente felice declinazione dei Sei racconti morali, Il ginocchio di Claire (1970) segna quello che è forse il gioiello più luminoso nella prima fase di carriera di Éric Rohmer, manifesto esemplare di tutto il suo cinema. Un piccolo diario, lieve quanto profondo, di un mese esatto di sensualità ed attrazione, di ambiguità e desiderio, di dinamiche umane e percorsi di crescita, ma anche uno straordinario film teorico sulla narrazione per immagini e per parole. Fra i vertici assoluti della storia del cinema, torna nella retrospettiva dedicata all’autore dal 42mo Bergamo Film Meeting.

77, le gambe delle donne

A Talloires, sulle rive del lago di Annecy, durante le sue ultime vacanze da scapolo, Jérôme, un addetto culturale di 35 anni, ritrova la sua amica Aurora, una scrittrice rumena che scrive romanzi sentimentali ispirati, tra le altre cose, a storie vere confidatale negli anni da Jérôme. Un po’ per gioco e un po’ per scrivere un’altra storia (nei libri, nella vita, e di conseguenza sullo schermo), la scrittrice cerca di spingere l’amico verso Laura, la giovane figlia della sua affittuaria evidentemente attratta da lui e ben disposta a giocare a sedurlo. La curiosità di Laura la porta a instaurare con l’uomo un rapporto di amicizia tenero, cerebrale e quasi affettuoso, e per quanto Jérôme continui ad affermare di non avere reale intenzione di una (ulteriore) scappatella pre-matrimoniale, i suoi comportamenti libertini porteranno la ragazza a tirarsi indietro proprio al momento del bacio per fidanzarsi con l’amico Vincent, che ha la sua età. Giorni dopo, però, arriva Claire, l’attraente sorellastra maggiore di Laura. Vedendo il ginocchio di Claire illuminato dal sole mentre è intenta a raccogliere ciliegie su una scala, Jérôme desidera ardentemente toccarlo, ma riesce a controllare la tentazione… [sinossi]

Basta un gesto, per catalizzare tutte le dinamiche umane e narrative che animano Il ginocchio di Claire. Un gesto sognato, e(qui)vocato, voluto, costruito, immaginato, visto, compiuto e poi ancora una volta frainteso, sul quale quello che forse è il capolavoro in assoluto più esemplare del metodico minimalismo di Éric Rohmer, del suo lavoro certosino sulle sceneggiature, sugli attori e sui punti macchina, fa convergere come fonti di luce in un prisma dialoghi, situazioni, immagini e meta-racconti. Un gesto, riuscire ad accarezzare quel ginocchio della giovane Claire che come un frutto dalla scala si offre candido e sensuale alla brama feticistica di Jérôme, destinato a maturare come un’ossessione, e che funge da fondamentale punto di snodo sia del sentimento sia della commedia, sia del dramma sia della teoria, sia dell’atto di raccontare – e di costruire una narrazione, orale, scritta, cinematografica, nella vita – sia dell’ambiguità anche morbosa fra ciò che si afferma a parole e l’esatto opposto che contemporaneamente affermano il linguaggio del corpo, il comportamento e la spontaneità. Veri e propri frammenti di un discorso amoroso, come li avrebbe chiamati sette anni dopo Roland Barthes, che in realtà sono parte di un discorso ben più ampio, tanto sul desiderio quanto sulle forme della narrazione, tanto sull’ambiguità (imper)scrutabile dell’uomo quanto sulla naturalezza (o meno) con cui si indossa una maschera sociale, tanto sulla sensualità della vicinanza fisica quanto sulla progressiva sfumatura del confine fra verità e menzogne lungo i percorsi più sinuosi della dialettica, della moralità e del caso. Elementi di un meccanismo cinematografico perfettamente oliato e forse più che mai a orologeria nelle sue conseguenze, nel quale come di consueto, al di sotto della superficie di una levità solo apparente, Rohmer lavora per doppi, per situazioni speculari, per figure magari enigmatiche ma sempre perfettamente archetipiche. Per rapporti ambigui fra vecchi amici (e forse in passato amanti?) che, mentre negano ogni interesse l’uno per l’altro, intersecano le mani sempre alla ricerca di un costante contatto corporeo a pochi centimetri dal bacio. Per sorellastre diverse come Laura e Claire, la mora e la bionda, la timida e la disinibita, l’ingenua e la matura, la (ancora) bambina e la (già) adulta, come (s)oggetti di differenti giochi di seduzione e di non seduzione. Per nemmeno troppo aitanti spasimanti diciannovenni (che poi sarebbero diventati Fabrice Luchini, ma al tempo non si poteva ancora sapere) che esattamente come gli adulti negano un’emotività e un’intesa sempre più evidenti. Un film di antieroi trentacinquenni e di giovani(ssime) ninfe che risvegliano sensazioni credute sopite, di ragazzi antagonisti da screditare (a costo di vedere quel che si vuole e di fraintendere un’intera situazione) e di premi simbolici e ambitissimi (il ginocchio, appunto) da ottenere come traguardo di un nuovo punto di equilibrio. Ma anche un film di punti di vista, di chiarori naturali che incorniciano il Lago di Annecy e che sembrano illuminare proprio quel ginocchio vertice di ogni desiderio, di binocoli con cui è impossibile andare al di là dell’impressione (errata), di diversi saluti da diversi ponti che aprono e chiudono il piccolo viaggio di Jérôme: una casa d’infanzia da vendere, un passato di cui si sa poco, un matrimonio più per abitudine e «accettazione di un dato di fatto» che per reale convinzione che lo aspetta di lì a pochi giorni. Un prurito che diventa sempre più inarrestabile.

Eppure non è certo un caso che sia la scrittrice rumena Aurora, e non il protagonista Jérôme che diventa consapevolmente la sua «cavia», il personaggio che come una sorta di regista in campo muoverà i fili e le pedine per tutto il mese di prima estate di cui si compone Il ginocchio di Claire, quinto dei Sei racconti morali tornato, così come il precedente La collezionista e il successivo L’amore il pomeriggio, sul grande schermo del Bergamo Film Meeting nell’ambito della nutrita retrospettiva rohmeriana dell’edizione numero 42. Una vera e propria dea-ex-machina che prevede le mosse degli altri, che suggerisce a tutti come comportarsi, e che apertamente partecipa a una vera e propria messa in scena di vita da poter poi rielaborare e raccontare nel suo prossimo libro, fino a rendere interessante ciò che non lo è – «Io non invento mai. Scopro». Del resto, a ben vedere, è già dalla scelta “diaristica” di suddividere i blocchi narrativi perfettamente lineari del film in giornate annunciate dalle date scritte a mano che, in blu su sfondo rosa, scandiscono come sipari il passare dei giorni dal 29 giugno al 29 luglio, che Rohmer tende sin da subito alla sostanziale sovrapposizione fra il cinema e la letteratura, ma anche con il teatro e con la narrazione intima e personale di un diario segreto (e volendo perfino con la fotografia, attraverso l’ennesimo doppio Lucinda-Claire che appaiono in effigie poco prima che la seconda entri fisicamente in scena a sconvolgere i sentimenti di Jérôme per l’altra, destinata invece a rimanere fuori dal campo in attesa dei fiori d’arancio). Come a dire che sono l’atto e il senso stesso di (vivere per) raccontare il punto di Rohmer, a prescindere dalla forma, e che i linguaggi per esprimerlo nient’altro sono che una logica e necessaria conseguenza. È per questo che tutti a turno raccontano e tutti a turno ascoltano, nel cinema unico e gigantesco dell’autore francese, ed è per questo che tutti, specialmente chi lo nega, contribuiscono ogni volta a plasmare una storia fatta di infinite (possibili) storie, che possono succedere oppure non succedere, come puzzle dagli incastri non obbligati, come snodi imprevedibili di tatto, di sogno e di (auto)manipolazione. «Gli eroi sono tutti bendati», dirà Aurora di fronte a un dipinto di Don Chisciotte «altrimenti non farebbero nulla». Il motivo per cui, nel suo rapporto così innocente a parole e al contrario così fisicamente sensuale con Jérôme, è perfettamente consapevole di avere a che fare con un perfetto antieroe, che preferisce semmai al contrario accecare gli altri con la retorica e con l’esperienza da donnaiolo, che si dice «disarmato» dallo sguardo di una bella ragazza in lacrime ma che proprio dal provocare le lacrime e dalla costruzione della possibilità di fare apparire consolatorio un gesto in realtà morboso troverà la propria soddisfazione. A costo di ingannare anche se stesso, di ritenersi perfettamente morale e in buona fede nell’aver aperto gli occhi a Claire quando la giovane non era stata affatto tradita dal suo (pur antipatico e spaccone) fidanzato Gilles, e di andare via per sempre in barca, giusto un attimo prima delle spiegazioni e della loro riconciliazione, ancora convinto di aver compiuto una buona azione.

Era il 1951 quando sulle pagine del numero 5 dei Cahiers du Cinéma apparve il breve racconto La Roseraie, firmato dallo stesso Éric Rohmer a quattro mani con Paul Gégauff. Una storia di desiderio e di feticismo (quella volta per la base del collo, da sfiorare e quindi da possedere) che diciannove anni dopo, nel 1970, Rohmer farà citare espressamente ad Aurora non come approdo, ma come possibile soggetto di una storia iniziata e abbandonata, da prendere come mero punto di partenza per ricominciare a scrivere dal principio. È in questo senso che, molto al di là delle evidenti differenze fra i testi, Il ginocchio di Claire non è mai stato un adattamento del racconto a cui si dice ispirato, ma una sua completa riscrittura, con più profonde ambizioni (antropologiche, sociali, narrative, teoriche, linguistiche, dialogiche) e con più ramificati intenti programmatici. Un film nel quale, come sempre in Rohmer, sono gli adolescenti a smascherare gli adulti – «Ai vostri tempi non c’era più amore, forse giusto un pizzico in più di ipocrisia» – anche quando gli adulti sono sinceramente convinti del contrario, nel quale il flirt può essere indifferentemente gioco, speculazione, infatuazione, semplice racconto o forse tutto questo insieme senza nemmeno più saperlo, e nel quale le parole, magari smentite dai comportamenti, oscillano apertamente fra la verità e la bugia, fra il racconto e la dissimulazione, fra il vizio privato e la pubblica virtù. Fra la persona e il personaggio, sempre che ci possa essere una reale differenza. Un film nel quale dire ripetutamente di aver smesso di correre dietro alle donne per poi vedere un dettaglio e (ri)scoprire improvvisamente di desiderare con ardore, mentre magari l’oggetto del desiderio viene raggiunto da altri, apparentemente precluso, vicinissimo eppure a distanza siderale per il senso del tatto. Un desiderio che non è necessariamente sessuale oppure innocente, ma che si pone nel mezzo come «atto di pura volontà», come la necessità di sentirsi appagati da un possesso che forse nemmeno è reale possesso, ma una mera e temporanea, ma non per questo sentita come meno necessaria, affermazione di se stessi. Il resto sono i giri in motoscafo (magari con in seno qualche altra incomprensione generazionale e qualche posizione inconciliabile fra le case della tradizione e la modernità dei campeggi) e i campi da tennis, le passeggiate in montagna e le serate danzanti, le panchine e le ciliegie, gli (in)volontari pedinamenti e le nuvole che si radunano in un temporale sul lago. Ma soprattutto le narrazioni, le confessioni, la dialettica, e magari qualche disvelamento finale che riporta improvvisamente dentro e fuori dal giocoso vortice di seduzione. Come una pioggia che ridiventa sole, e come l’ennesimo partire con in tasca una verità che non realmente è la verità, ma semplicemente la propria verità. Una dinamica interiore, più ancora che interpersonale, che impernia non solo i Sei racconti morali ma l’intera miracolosa opera di Éric Rohmer (si veda in tal senso quello che sarà tredici anni dopo l’esplicito finale di Pauline à la plage, ma pure i continui equivoci su cui si dipanerà successivamente L’amico della mia amica), e che forse più di tutte le altre rende il suo cinema così straordinariamente puro e vibrante. Un cinema che esplora il quotidiano alla ricerca della (sua) morale, e mai del moralismo, e la problematizza, la contesta, la fa riemergere, la inganna, la rilancia, la smentisce, la mette (e magari rimette) in (meta)scena. Straordinariamente semplice e al contempo straordinariamente complesso, stratificato, contraddittorio, inafferrabile. Come il desiderio, come le parole, come la vita. Semmai, la questione destinata a rimanere irrisolta è chiedersi come verrebbe preso un film del genere se uscisse adesso, con i suoi intrecci d’attrazione fra i sedici, i diciotto e i trentacinque anni. Nel 1970, tempi evidentemente più maturi di questi, vinse il premio Louis Delluc come miglior film francese della stagione, osannato da un pubblico esterrefatto dalla magistrale intelligenza e dalla strabiliante delicatezza del film e del suo autore. Per quanto riguarda il contemporaneo, invece, forse basterebbe chiedere ai più grandi allievi di Rohmer. Non tanto a Hong Sangsoo, che ne ha ripreso la centralità dialettica e l’apparente semplicità delle trame, quanto a Catherine Breillat e Abdellatif Kechiche che ne hanno portato ad ancor più estreme conseguenze gli aspetti più pruriginosi, per ritrovarsi rispettivamente stroncata da tutta la carriera e addirittura ostracizzato con Mektoub, My Love: Intermezzo e (probabilmente) Mektoub, my love: Canto Due bloccati in un tribunale, in attesa di un giudizio che si sta procrastinando ormai da cinque anni. Ma queste, purtroppo o per fortuna, sono davvero altre storie, alle quali non può bastare un singolo gesto per trovare una risoluzione. Servirà la Storia, quella con la S maiuscola. L’unica in grado di fare giustizia.

Info
Il ginocchio di Claire, il trailer.

  • il-ginocchio-di-claire-1970-le-genou-de-claire-eric-rohmer-01.jpg
  • il-ginocchio-di-claire-1970-le-genou-de-claire-eric-rohmer-02.jpg
  • il-ginocchio-di-claire-1970-le-genou-de-claire-eric-rohmer-03.jpg

Articoli correlati

Array
  • Bergamo 2024

    pauline alla spiaggia recensionePauline alla spiaggia

    di A quarantun anni dalla sua realizzazione, Pauline alla spiaggia continua a riscrivere le regole dell’attrazione e dei sentimenti raccontando le ingenuità e le ipocrisie degli adulti attraverso la purezza dello sguardo della giovanissima protagonista.
  • Festival

    Bergamo Film Meeting 2024 – Presentazione

    Dal 9 al 17 marzo si svolgerà il Bergamo Film Meeting 2024, la 42ª edizione della kermesse orobica con la nuova direzione artistica di Fiammetta Girola e Annamaria Materazzini, che subentrano ad Angelo Signorelli. Invariata la struttura del festival.
  • Buone feste!

    Charlotte et Véronique

    di Charlotte et Véronique, noto anche con il titolo (in realtà un sottotitolo) Tous les garçons s'appellent Patrick, è il terzo cortometraggio diretto da Jean-Luc Godard, stavolta su sceneggiatura di Eric Rohmer.
  • Saggi

    Il saluto a Éric Rohmer

    Un ricordo di Éric Rohmer, tra gli esponenti più splendenti e complessi di quel microcosmo francese che prese il nome di Nouvelle Vague.
  • Archivio

    Gli amori di Astrea e Celadon

    di L'ultima regia di Éric Rohmer, è l'ennesima conferma di un autore unico, tra i più rilevanti nomi del cinema europeo del Novecento.