Planète B

Planète B

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Con Planète B, che segna il ritorno al lungometraggio per la quarantenne Aude Léa Rapin a cinque anni di distanza da Les héros ne meurent jamais, il cinema francese conferma la sua capacità di maneggiare il genere, di trattare la materia popolare per ragionare (anche) sui massimi sistemi. Qui con qualche semplificazione, forse, ma con innegabile gusto per la messa in scena. Ottima l’interpretazione di Adèle Exarchopoulos. Titolo di apertura della Settimana Internazionale della Critica.

(Non) c’è un pianeta B!

Francia, 2039. Una notte, un gruppo di attivisti perseguitati dallo Stato scompare senza lasciare traccia. Julia Bombarth è una di loro. Al suo risveglio, si ritrova intrappolata in un mondo del tutto sconosciuto: il Pianeta B. [sinossi]

Di suggestioni nel propone davvero molte Aude Léa Rapin, che torna quarantenne alla regia a distanza di cinque anni dall’esordio Les héros ne meurent jamais, che prese parte fuori concorso alla Semaine de la Critique a Cannes: un percorso che si rinnova in qualche modo con quest’opera seconda, Planète B, che ha ottenuto l’onere e l’onore di aprire ufficialmente le danze (sempre non prendendo parte alla competizione) della trentanovesima edizione della Settimana Internazionale della Critica di Venezia. In questi cinque anni, e nell’ideale spostamento dal sud della Francia al nord-est italiano, la cineasta francese all’apparenza abbandona il reale, che nell’opera prima prendeva i contorni (a volte un po’ fuori fuoco) del conflitto balcanico, per immergersi completamente negli umori del cinema “di genere”. Planète B è infatti uno sci-fi in piena regola, ambientato nella Francia del futuro prossimo – l’azione si svolge nel 2039 –, e si muove dunque nel solco di molta produzione anche d’autore transalpina degli ultimi anni, come possono testimoniare ad esempio The Animal Kingdom di Thomas Cailley, Acid di Just Philippot, o Vincent deve morire di Stéphan Castang, solo per restare nell’ultimo biennio; ed è interessante anche notare come la SIC ami allargare lo sguardo proprio in quella direzione, dialogando apertamente con questa deriva del cinema francese come già fatto dodici mesi fa quando la sezione ospitò tanto in concorso l’horror arthouse Le Vourdalak di Adrien Beau quanto come chiusura l’elettrizzante Vermines di Sébastien Vaniček che vedeva un’orda di abnormi aracnidi assediare una palazzina nella banlieu parigina. Quest’anno poi la SIC si chiuderà su un action sui generis come Little Jaffna di Lawrence Valin, qualora il concetto non fosse abbastanza chiaro.

Come si accennava dianzi Rapin ha le idee ben chiare, e pur partendo da un immaginario evidentemente desunto da decenni di rappresentazione del “futuro”, non si limita a una mera ripresa di quanto assorbito dallo sguardo cinefilo. Tutt’altro, la vera forza del suo film sta proprio nella capacità di ragionare attorno all’ovvio, o apparentemente tale, per rintracciare connessioni con il presente, le sue distonie che sono già in qualche modo distopie, visto che il corpo collettivo virtuale non riesce a esperirle come effettiva realtà. C’è l’intelligenza artificiale, in Planète B, così come la riflessione sul sistema sempre meno democratico e vieppiù soffocante ordito in occidente; ci sono le proteste soffocate nel silenzio generale; c’è il timore per un mondo non più naturale, sempre che questo aggettivo possa contenere in sé ancora una stilla di senso. C’è anche la pandemia, in qualche modo, con il vero che si è tramutato definitivamente in dialogo a distanza, e dunque ovviamente immagine. Non c’è un pianeta B, urlano di rabbia i contestatari che denunciano il cambiamento climatico con tutto quel che può comportare, ed ecco che nel film di Rapin chi viene intercettato e fermato dalle forze dell’ordine viene proprio spedito sul “Planète B”, un luogo da cui evidentemente sarà difficile trovare una via d’uscita. Ma quella B nel titolo in qualche modo parla anche alla tipologia di cinema che si vuole tornare a proporre, che scardini dall’interno il meccanismo del cinema di “serie A” e rinverdisca l’immaginario, donandogli nuove prospettive di sguardo.

Parla di avatar, Planète B, di luoghi chiusi a tripla mandata, di oscurità creata negli spazi architettonici, di un mondo allo sfacelo dove solo la ribellione può essere una seppur vaga arma. Gioca con i cromatismi carpenteriani, agogna strutture scottiane, ma di nuovo non si limita ad applicarsi a una copia carbone priva di identità. E anche quando il film deborda, lasciando scivolar via una narrazione che nella seconda metà non sa bene come venire a capo del cubo di Rubik in cui si ritrova, Rapin dimostra di essere maturata come cineasta, trovando soluzioni visive interessanti, che sappiano fingere quel raccordo che altrimenti verrebbe meno. Al punto che si spera di quando in quando che i dialoghi cessino del tutto, affidandosi invece all’atmosfera, in grado da sola di restituire la voglia di evasione dell’attivista Julia Bombarth e ancor più di Nour, che vorrebbe solo fuggire dalla prigione/Francia per raggiungere il Canada. È lei, interpretata da Souheila Yacoub, a rapire lo sguardo del pubblico fino a quel momento dominato dalla sempre ottima Adèle Exarchopoulos, sorta di erede di Snake Plissken che rappresenta anche la voce del giovane cinema francese, e della sua voglia a sua volta di evasione da una prassi che si è fatta via via sempre più annichilente. E in quel finale, che sembra anche rievocare le terribili immagini di coloro che sopravvissero all’eccidio del Bataclan, si torna a percepire la stratificazione del discorso intrapreso da Aude Léa Rapin.

Info
Planète B sul sito della SIC.

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