Carrie – Lo sguardo di Satana

Carrie – Lo sguardo di Satana

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Primo racconto di Stephen King a trovare una trasposizione sul grande schermo, Carrie – Lo sguardo di Satana di Brian De Palma mantiene a distanza di quasi cinquanta anni dalla sua realizzazione un doloroso fascino orrorifico, la potenza deflagrante di una malsanità morbosa che ristagna nella middle class statunitense.

Essere donna oggi

Carrie White, adolescente complessata per l’educazione sbagliata ricevuta dalla madre, è lo zimbello della classe e un giorno subisce le derisioni delle compagne perché, mentre è sotto la doccia, senza alcuna istruzione preventiva subisce le mestruazioni. Sue, una compagna più sensibile, si pente e convince il proprio ragazzo, Tommy Ross, a far da cavaliere a Carrie nel prossimo ballo di fine corso. Un’altra compagna, Chris, punita da una professoressa per il suo atteggiamento verso Carrie, decide invece di vendicarsi… [sinossi]

A distanza di quasi cinquant’anni Carrie, che in Italia trovò da subito il sottotitolo pleonastico eppur non privo d’efficacia Lo sguardo di Satana, che coglieva in profondità l’essenza primigenia di questo horror immerso nei fumi del teen-movie – vale a dire il vedere come atto di scoperta, e quindi il cinema come punto di partenza del vivere stesso –, continua a svolgere con insospettabile efficacia il proprio ruolo, quello di ridefinizione del corpo adolescente, della pubertà come primo istante dell’inizio di una putrescenza data dall’esistenza in quanto tale, e dell’immersione di ciò che è all’apparenza puro nei miasmi dell’impurità, il viver sociale, la condivisione dello spazio intimo con tutto ciò che ne consegue. Non è certo casuale che sullo schermo, esattamente come nella pagina scritta di Stephen King (Carrie, pubblicato nel 1974, fu la prima sortita editoriale per il grande romanziere statunitense), il cognome della protagonista sia White, con un rimando immediato al colore più lindo, e dunque per antonomasia “puro”, “immacolato”. Vi è dunque un primo immediato contrasto, una delle molteplici dualità di cui si farà carico il racconto, ed è completamente racchiuso all’interno di Carrie, senza alcuna relazione con il mondo esterno, quel fuori-da-sé che la folle madre della ragazza vorrebbe precluderle in eterno – non senza qualche ragione, a ben vedere: ed ecco che si fa largo una nuova contraddizione, una delle più interessanti del film: a essere nel giusto è proprio uno dei personaggi più detestabili, e dichiaratamente fuori di senno. Tale dualismo è quello che intercorre tra una volontà di candore e una natura ferina, demoniaca, distruttiva. Carrie vorrebbe essere una ragazza come tutte le altre, monotona e in fin dei conti mediocre come quelle compagne di classe che facendosi forza attraverso il gruppo la ridicolizzano, bullizzandola senza pietà, ma non può: la sua natura è superiore grazie a poteri mentali che le permettono di spostare gli oggetti e fare interagire tra loro gli elementi.

Brian De Palma, che arriva a dirigere Carrie – Lo sguardo di Satana nello stesso anno di Obsession – Complesso di colpa (i due film escono a tre mesi di distanza l’uno dall’altro, e in qualche misura fungono da film gemelli, all’interno della filmografia del cineasta), trova nel 1976 il miracoloso punto d’incontro tra le prime insorgenze del proprio sguardo e l’ossessione hitchcockiana; entrambi i film fanno dell’astrazione nell’utilizzo degli spazi e del tempo della narrazione – con i consueti utilizzi dello split screen, ad esempio – uno dei punti salienti, con i detriti della nouvelle vague che ancora tracimano sullo schermo, ma si riconducono con nettezza alle esigenze spettacolari del maestro del brivido, di cui De Palma de facto si autoproclamò erede al punto da temere la “concorrenza” di Dario Argento, che in quegli anni furoreggiava anche sugli schermi d’oltreoceano. Ecco dunque che questa almeno parzialmente fedele riduzione del testo kinghiano – differisce nettamente il finale, come si scriverà più avanti – si configura come lo snodo fondamentale di una carriera che all’epoca arrivava già a contare altri nove titoli: un po’ come la sua protagonista anche De Palma entra nell’età adulta, superando i geniali lampi cinefilo-giovanili e approfondendo la sua lettura dell’umano, quella disillusione che apre il varco all’irruenza e poi alla deflagrazione violenta incontrollabile che sarà al centro di opere come Vestito per uccidere, Scarface, ma a ben vedere anche Vittime di guerra. Il tentativo riuscito di tenere al proprio interno due anime tra loro belligeranti in modo inesausto Carrie – Lo sguardo di Satana lo palesa fin dalle primissime sequenze. Il film si apre su un’inquadratura dall’alto di studentesse liceali che giocano a pallavolo, con un movimento di macchina aereo che vola su di loro fino a stringere su Carrie, che si muove goffa e timida e ha persino paura della palla. Da lì, dopo lo scorno subito dalla ragazzina da parte delle sue compagne di classe, si passa all’interno dello spogliatoio, nello spazio delle docce, ed è solo su questa inquadratura – immersa nei vapori dell’acqua calda – che compare il titolo di testa.

Ed è qui che il carattere dicotomico – bipolare? – del film si palesa, perché lo sguardo di De Palma si concentra sui corpi nudi in crescita, approfittando perfino del ralenti per accumulare voyeurismo su voyeurismo, e titillando le voluttà dello spettatore, che potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un’opera morbosa, con cascami erotico-adolescenziali non lontani da molti topos narrativi di quell’epoca cinematografica. E invece… Il sapone che Carrie si sta passando nell’interno coscia cade rovinosamente al suolo, e tra le dita della ragazza inizia a scorrere il sangue: l’ingresso del corpo femminile nella pubertà è intinto nel rosso che predomina da sempre l’horror, e ne detta perfino le regole. Si tratta poi sempre di un codice interno di natura hitchcockiana, e la doccia in tal senso non può non prefigurarsi come luogo della morte, e del corpo femminile ucciso dalla violenza del maschile desiderante; qui di nuovo dunque si configura un conflitto interno, perché sarà invece proprio quel corpo femminile “sanguinante” a detonare in tutta la sua violenza omicida, vendicativa e irrefrenabile. Di sangue il film poi abbonda letteralmente, fino a culminare nella sequenza del ballo di fine anno, che vede la reginetta Carrie inondata da una secchiata di sangue di maiale, l’animale impuro per eccellenza per tutte e tre le religioni “del libro” (anche ebrei e molti gruppi cristiani lo considerano tale, oltre ovviamente ai musulmani); ecco che White perde finalmente anche l’ultima resistenza alla propria natura, ora che di bianco non ha proprio più nulla, nemmeno l’abito. Affascina come De Palma si muova in territori teen – gli unici della sua intera carriera, insieme al successivo Fury che riprende non poche delle suggestioni di Carrie – scoperchiando un’abiezione che i più ricaccerebbero sempre indietro, nonostante tutto: gli adolescenti di De Palma, in un’epoca della produzione statunitense che non ha ancora vissuto la palingenesi del genere che arriverà dapprima grazie a Fast Times at Ridgemont High di Penelope Spheeris (ma scritto da Cameron Crowe) e quindi con la trilogia liceale di John Hughes – Sixteen Candles, The Breakfast Club, Ferris Bueller’s Day Off –, sono meschini, pavidi, crudeli, perfino spietati, al punto che Chris e Billy (Nancy Allen e John Travolta) investirebbero con gioia con la loro automobile Carrie se la ragazza non li facesse ribaltare e morire grazie ai suoi poteri telecinetici.

In una visione del mondo così permeata di pessimismo De Palma non poteva in alcun modo accettare la parte finale del romanzo di King, dove dapprima Carrie muore esausta nel mezzo della strada – proprio dopo aver fatto fuori i due bulletti che la volevano investire – e quindi dopo il pianto collettivo rituale per i ragazzi morti nell’incendio della palestra provocato dalla protagonista si arrivava a conoscere l’esistenza di un’altra giovane con i medesimi poteri di Carrie, in una sorta di ideale passaggio di consegne che in qualche misura relega la giovane a una sorta di immortalità mitica. Ben più materico il finale depalmiano, con Carrie che muore schiacciata dai mattoni della sua stessa abitazione che ha fatto crollare addosso alla madre bacchettona e infoiata dalla religione, per farla morire una volta per tutte, e quindi con un terrificante e indimenticabile passaggio onirico, che vede la sopravvissuta Susy (Amy Irving), che è sempre stata buona con Carrie, svegliarsi da un incubo orribile che vede la sua compagna di classe con i poteri sovrannaturali riemergere dalla sua stessa tomba come una ritornante per afferrarla e portarla via con sé. Un finale che anticipa il doppio sogno (Schnitzler docet) che chiuderà pochi anni dopo il meraviglioso Vestito per uccidere e che di nuovo sottolinea l’importanza cruciale di Carrie – Lo sguardo di Satana, tra gli horror più importanti della storia del cinema, in grado di elevare dalla massa un elemento all’apparenza uniforme e privo di connotazione, vale a dire l’adolescente, e renderlo allo stesso tempo – in questa sublime fiera delle dicotomie e delle dichiarate contraddizioni – vittima e carnefice. Carnefice attraverso lo sguardo e vittima dello sguardo, dei suoi compagni ma anche e soprattutto dello spettatore, e dunque in ultima istanza del cinema stesso.

Info
IL trailer di Carrie – Lo sguardo di Satana.

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