Domino

Impossibile immaginare quale forma assumesse nella testa di Brian De Palma Domino; lascia interdetti la versione rabberciata, tagliata e di fatto massacrata che raggiunge le sale, capace di reggersi solo su un paio di sequenze. Un film maledetto? Forse, ma di fatto anche la dimostrazione di come la memoria della New Hollywood sia oramai offuscata nella Mecca del cinema.

Drone e arena

Danimarca, 2020. L’agente di polizia Christian Toft lascia la pistola d’ordinanza a casa per errore e non può intervenire quando il suo compagno di ronda si ritrova con la gola tagliata per mano di un terrorista islamico. Questo terrorista è in realtà un agente sotto copertura della CIA, che sottobanco muove un gran numero di pedine. Dov’è la giustizia? E come farà Christian a ottenerla? [sinossi]

Chissà quanti sono i Domino possibili, oltre a quello a dir poco travagliato che raggiunge anche le sale italiane nell’afa di luglio. C’è questo film che si ferma subito prima dell’ora e mezza di durata e che ha tutte le sembianze del coito interrotto: un poliziesco rabberciato, un arto atrofizzato, un ramo reciso quasi all’altezza del tronco. Questo Domino, che porta comunque la firma di Brian De Palma – ed è questo un aspetto che non può in ogni caso essere minimizzato – sembra promettere mirabilie estetiche che non è poi purtroppo in grado di mantenere. Si può e si deve parlare di questo film, è necessario analizzarlo e sottolinearne le evidenti mancanze, i punti che non tornano, i buchi non solo di sceneggiatura (la dittatura della scrittura, peso marcescente che arriva direttamente dal piccolo schermo, andrebbe trattata con una politica dello sguardo che oggi come oggi appare una chimera) ma di immaginario. Ma non si può far finta di nulla: Domino raggiunge le sale, ma è un film slombato rispetto a quel che sarebbe dovuto essere. Chissà quale forma assume questa storia di polizia, terrorismo internazionale e geopolitica – altrettanto terrorista – quando a (ri)pensarla è la mente di Brian De Palma. Chissà cosa avrebbe dovuto esserci, quali immagini dovevano comporre realmente il dramma umano e professionale di Christian Toft, poliziotto danese un po’ sempliciotto che per colpa della propria dabbenaggine (ha lasciato la pistola d’ordinanza sul mobiletto accanto al letto, esattamente a pochi centimetri dalla donna con cui ha passato la notte: la metafora sessuale non potrebbe essere più chiara) non può intervenire quando l’uomo che devono arrestare per un presunto omicidio in un appartamento taglia la gola al suo migliore amico, nonché compagno quotidiano di ronda ovviamente – la suddetta dittatura della sceneggiatura – a pochi giorni dal suo definitivo congedo dalla polizia. Non lo si saprà mai, probabilmente, anche perché è difficile che De Palma, a un passo dagli ottant’anni e con una trentina di regie sulle spalle, abbia la voglia e la forza di combattere per ottenere un director’s cut. Peccato? Forse. Il vero peccato, per non parlare direttamente di crimine, è vedere come uno dei nomi centrali del cinema degli ultimi decenni non solo non trovi più ospitalità nella “natia” Hollywood (l’ultimo suo film distribuito da una major è The Black Dahlia, nel 2006; per trovare l’ultima suo titolo direttamente prodotto da una major bisogna invece risalire addirittura al 2000, con Mission to Mars), ma venga anche trattato con sufficienza dalle persone con cui si ritrova a collaborare, senza che gli sia concessa l’ultima parola sull’edizione.

Possiede un insano fascino da film sghembo Domino, con un’estetica da pseudo anni Ottanta che non lascia indifferenti. E il dirottamento subito da De Palma vive quasi una deriva teorica, visto che il film parla di terrorismi, di giochi doppi e tripli, dove la verità non è mai la verità né mai la totale falsità. Perfino il titolo del film, un semplicissimo e un po’ triste bianco contornato di nero che appare a metà dello schermo sull’immagine di ciclisti che passeggiano tranquilli per le strade di Copenaghen, ha qualcosa di irrisolto e dolorosamente poetico allo stesso tempo. La prima metà del film, dopotutto, è l’unica a conservare una propria potenza espressiva ma anche una coerenza narrativa. È qui, nella lunga sequenza – oltre dieci minuti, un ottavo del film – che vede Christopher e Lars andare a verificare il luogo del delitto per trovarsi invischiati in un affare più grande di loro, che De Palma regala al pubblico una dimostrazione di strapotere cinematografico in grado di far impallidire la stragrande maggioranza dei suoi colleghi. Un inseguimento inevitabilmente hitchcockiano – c’è l’onnipresente Vertigo a farla da padrone, non solo per la corsa sui tetti, ma anche per l’utilizzo spregiudicato di colori del tutto distanti dalla prassi del realismo – che è cifra autoriale quasi automatica per De Palma ma nel quale vibra una lirica del mostrare così genuina e zampillante da lasciare a occhi aperti. Non ha bisogno della pistola d’ordinanza De Palma per provocare orgasmi incontrollati. Non si può che restare a occhi sbarrati di fronte a tale magnificenza.
Il fatto che a questa sequenza, culminata in un salto nel vuoto – il domino/dominio dall’alto è riservato a chi tiene le redini del gioco del potere, non certo a chi mette a rischio la propria vita in qualità di pedina; lo si vedrà anche in seguito, nella seconda scena determinante del film – faccia seguito un plot al limitar della demenza, tutto concentrato sui problemi intimi di personaggi privi della benché minima forza, è la dimostrazione plastica di un congegno mancante e macchinoso. Christian è un kalos kai agatos privo però di cervello, le cui sinapsi sono ridotte ai minimi termini, e meglio non va con la sua collega Alex, interpretata da una Carice van Houten completamente spenta (l’attrice ha sostituito all’ultimo momento Christina Hendricks, prima scelta per il ruolo), poliziotta amante del moribondo Lars con la gola tagliata e perfino incinta di lui. Il discorso sulla bugia elevata a prassi di vita quotidiana avrebbe meritato un approfondimento meno banale. Il tutto viene poi reso ancora più farraginoso dall’intervento in scena tanto del sedicente Stato Islamico quanto dell’ingerenza dei servizi segreti statunitensi nelle questioni interne agli stati europei.

In questo pandemonio di suggestioni e sottotrame un film tagliuzzato come Domino non può che perdersi completamente, inanellando sciocchezze su sciocche. Anche la regia di De Palma qua e là zoppica, impossibilitata a controllare un prodotto così debole. Eppure è solo credendo ciecamente in lei – la regia, ça va sans dire – che si può giungere alla seconda sequenza elettrizzante – ed elettrica – del film, l’attesa spasmodica dell’attentato nell’arena de toros, durante una corrida. Mentre il drone, elemento della scena e della messa in scena contemporaneamente, sta portando nell’arena, dall’alto – domino? – la bomba omicida, lo spettatore non può che perdersi nella visione, nella costruzione della suspense così dimenticata dai giovani registi. In quegli attimi si vive il clamore del classico, lo si percepisce come atto fuori dal tempo e per questo ancor più indispensabile in un tempo etico ed estetico così vacuo. Ci si perde nell’immagine e si riesce a evadere da quella prigione della scrittura che è l’oggi. È solo per pochi istanti, perché poi torna la pesantezza del plot, lo scialbo Christian e la melodrammatica Alex, ma si può volare con quel drone e sognare, in qualche modo, di bombardare la piattezza dell’immaginario odierno. Anche De Palma, dopotutto, preferisce concludere tutto sullo sterminio, per di più sul tappeto rosso del Netherlands Film Festival di Utrecht. Nell’epicentro della finzione è il terrorismo a mettersi in scena per rivendicare spazi di realtà. Ma il cinema resta un martirio, come quello cui è andato incontro un film distrutto, rivisto e non corretto. Esplode l’immagine in una nuvola bianca da cui riemerge una scritta: directed by Brian De Palma. Chissà quanti Domino esistono realmente, e qual è la forma che assume nella sue mente.

Info
Il trailer di Domino.

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