Dream

Dream

di

Quindicesimo lungometraggio diretto da Kim Ki-duk in dodici anni di carriera, Dream mostra un autore forse stanco, ancorato a stilemi che non possiedono più la brutale potenza espressiva degli esordi.

I’m Only Sleeping

Jin si sveglia dopo aver sognato un incidente stradale. I dettagli di quell’incubo lo portano a un luogo preciso dove assiste alle conseguenze di un reale incidente. Segue la polizia fino a casa di Ran, una ragazza sospettata di essere il pirata della strada che però nega l’accusa dichiarando di aver dormito tutta la notte. La polizia la arresta, ma Jin è convinto che ci sia un’inspiegabile connessione tra loro: quando lui sogna, infatti, Ran inconsciamente agisce nel sonno. [sinossi]

Nonostante rimanga uno dei maestri indiscutibili del cinema sudcoreano contemporaneo, non si può fingere di essere un po’ sconcertati dalla deriva autoriale che sta prendendo il cinema di Kim Ki-duk. Negli ultimi anni, a partire dal deludente L’arco (che quantomeno manteneva ancora un apprezzabile lavoro sull’inquadratura), l’opera cinematografica di Kim dà l’impressione di aver iniziato inesorabilmente a girare a vuoto, replicando in maniera stanca una serie di cliché accumulati nel corso del tempo; non è carino dirlo, ma l’impressione è che Kim, superato un lustro di straordinaria forma artistica, durante il quale inanellò una serie di titoli stupefacenti, e imperdibili (L’isola, Address Unknow, Bad Guy, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, La samaritana e Ferro 3), stia ora cercando disperatamente di rifiatare. E non ci sarebbe nulla di male né di sbagliato, in questo, se l’idea di “rifiato” di Kim non si traducesse in una sgraziata affermazione di insincerità verso lo spettatore; Dream, ma anche i precedenti Time e Soffio, sono film che risuonano vuoti. Vuoti perché nascondono dietro arzigogolate trovate poetiche un nulla sinottico: nella tracimante parte finale di Dream, dove il sogno si trasforma da improbabile gioco d’amore e corteggiamento (e quanto sarebbe stato più interessante se Kim si fosse soffermato maggiormente su questo aspetto della pellicola, lo stanno a dimostrare le momentanee, ma decisamente ben più ispirate del resto, svisate da commedia di cui è intriso l’incipit della pellicola) in terribile incubo dominato dal senso di colpa, Kim sembra voler tornare a quel cinema della crudeltà e della durezza che animava in maniera barbarica i suoi film una decina di anni fa. Ma se ancora oggi ricordiamo con un misto di angoscia e dolore fisico le mutilazioni interne che si infliggono i protagonisti di Seom/L’isola o l’auto accecamento della ragazza in Address Unknown, le martellate sui piedi che si tira Joe Odagiri – altro passo falso nel suo curriculum dopo il parzialmente pasticciato Plastic City di Yu Lik-wai; peccato, perché la sua professionalità è davvero difficile da mettere in discussione – per non addormentarsi e impedire alla sua “anima gemella” di agire per conto suo nello stato di trance del sonnambulismo, rischiano di trascinare con facilità al riso lo spettatore.

Il perché l’abbiamo già detto: è troppo palese come Kim stia vivendo di rendita, giocando su metafore usurate che possono cogliere in contropiede solo lo spettatore più gonzo. La trovata della trasformazione in farfalla è francamente inqualificabile, pari per mancanza di finezza e per esagerata stima nelle proprie potenzialità poetiche alla rottura dell’imene mostrataci ne L’arco. Dov’è finito il raggelante silenzio che faceva cadere nel sogno l’ultima parte di Ferro 3? Che fine ha fatto l’angosciosa crudeltà di Bad Guy? A tratti, più che a un’opera minore di un grande cineasta, abbiamo avuto l’impressione di trovarci di fronte al film di un esordiente deciso a ripercorrere stili e tempi di Kim Ki-duk; anche la regia, difatti, si è fatta molto meno precisa, priva sia del raziocinio geometrico di alcune sue opere (Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Ferro 3, La samaritana) che della follia delirante e mistica di altre (L’isola, Address Unknown, Bad Guy, The Crocodile). Tutto sembra fin troppo casuale, rabberciato, vacuo.
Sul finire dei titoli di coda una scritta ci ricorda, non senza un punta di prosopopea, come Dream sia il quindicesimo lungometraggio firmato da Kim Ki-duk, in appena dodici anni di carriera. Sarebbe forse il caso, per questo monolite del cinema coreano, di prendersi una pausa di riflessione, durante la quale rilassarsi e riposarsi. Sempre che negli ultimi anni non stia scrivendo durante il sonno; non si sa mai.

Info
Dream sul sito del TFF.

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