Un mostro a Parigi

Un mostro a Parigi

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Reduce dai pessimi La strada per El Dorado e Shark Tale, targati DreamWorks, Bibo Bergeron scrive e dirige una storiella dai contorni romantici, condita da un po’ di azione, qualche canzone e da una serie di gag non sempre riuscite. Presentato in anteprima e in concorso al Future Film Festival di Bologna, Un mostro a Parigi incarna buona parte dei difetti dell’animazione mainstream in computer grafica.

La stella della Senna

Parigi, 1910: il panico dilaga nella città. La Senna straripa e c’è un mostro che scorrazza per le strade. Il formidabile commissario Maynott e i suoi uomini gli danno la caccia giorno e notte, ma senza alcuna fortuna. Forse un nascondiglio ideale potrebbe essere sotto i riflettori del The Rare Bird, un cabaret di Montmartre dove la volitiva Lucille si esibisce come attrazione principale. Emilio, un timido proiezionista cinematografico, e Raoul, un pittoresco inventore, si ritrovano coinvolti nella caccia al mostro che terrorizza i cittadini. I due si uniscono alla scimmietta di uno scienziato per salvare il mostro, che si rivela una gigantesca ma innocua pulce, dall’ambizioso e spietato capo della polizia parigina… [sinossi]

Il peccato davvero imperdonabile del lungometraggio d’animazione in computer grafica Un mostro a Parigi (Un monstre à Paris, 2011), ennesima produzione europea che scimmiotta i colossi statunitensi [1], è la sua inutile tridimensionalità. Messi di fronte a una Parigi spesso spoglia e ben poco popolata, ma puntualmente gonfiata in 3D per dovere di botteghino, ci si chiede il senso di un’operazione che dal punto di vista squisitamente tecnico avrebbe pagato dazio anche nel fatidico 1995, anno indelebilmente segnato dall’uscita di Toy Story – Il mondo dei giocattoli di John Lasseter. Non siamo certamente ai livelli dell’inclassificabile L’apetta Giulia e la signora Vita (2003) di Paolo Modugno o, per salire di qualche gradino, di Valiant – Piccioni da combattimento (2005) di Gary Chapman, ma è proprio l’ingiustificata presenza del 3D a rimarcare il ritardo dell’animazione in computer grafica sugli attuali standard. E i titoli di coda, impreziositi da gradevoli bozze e ispirati disegni preparatori, assumono i contorni di un goffo autogoal: la computer grafica, come il 3D, sono uno specchietto per le allodole, una formuletta buona forse per il box office, per il grande (e pigro) pubblico, ma non per la crescita artistica dell’animazione francese ed europea. L’animazione tradizionale avrebbe reso, in sostanza, un migliore servizio a una sceneggiatura comunque traballante.

Reduce dalle regie dei pessimi La strada per El Dorado (2000) e Shark Tale (2004), targati DreamWorks, Bibo Bergeron scrive e dirige una storiella dai contorni romantici, condita da un po’ di azione, da qualche canzone (orecchiabile, soprattutto nel secondo arrangiamento, il brano La Seine/La Seine and I, interpretata da Vanessa Paradis) e da una serie di gag non sempre riuscite. Troppo prevedibile e con l’aggravante di un finale posticcio, il film si regge su poche intuizioni – la soggettiva del mostro, l’incipit, i flashback – e su un ritmo abbastanza sostenuto che però si trascina via più di uno snodo narrativo. Lascia più di un dubbio, infine, il character design caricaturale, con la consueta carrellata di personaggi dalle dimensioni fisiche alquanto diverse (il timido e piccolo Emile, il bizzarro e segaligno Raoul, il mastodontico e pettoruto commissario Maynott e via discorrendo).
Presentato in anteprima e in concorso al Future Film Festival di Bologna, Un mostro a Parigi incarna buona parte dei difetti dell’animazione mainstream in computer grafica. Molto meglio, per restare in terra francese, recuperare l’avventuroso Le avventure di Zarafa (2012) di Rémi Bezançon e Jean-Christophe Lie. Idee, animazione tradizionale e nessuna traccia del 3D.
Note
1. Più DreamWorks che Pixar, ça va sans dire.
Info
Una clip tratta da Un mostro a Parigi.
Il sito ufficiale di Un mostro a Parigi.
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