Le streghe di Salem

Le streghe di Salem

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Torna l’horror cinefilo di Rob Zombie, che con Le streghe di Salem prosegue la sua personale raccolta delle suggestioni audiovisive oggetto del suo accorato feticismo. Zombie preleva elementi di messinscena o narrativi da The Fog, dall’Esorcista, dall’Albero del male e da Il bacio della pantera di Schrader, sfiorando persino lo sperimentalismo visivo di Matthew Barney.

Mia moglie è una strega

Heidi Hawthorne, lavora come dj alla stazione radio di Salem, Massachussets, località storicamente nota per il suo passato di condanne stregonesche. Quando le viene recapitato un LP dei misteriosi The Lords: il suono inquietante e ipnotico della band la trasporterà in un universo diabolico del quale sarà la principale protagonista… [sinossi]

Ognuno ha i suoi personali oggetti di culto, film, canzoni, romanzi, magari anche fumetti, talvolta si tratta di guilty pleasures inconfessabili, talaltra di modelli alti ampiamente riconosciuti e di cui andare fieri. Il cinema di Rob Zombie è un po’ così, abile e spavalda mistura di cultura pop e non, che strizza l’occhio ai fan del genere horror, ma in fondo mira onestamente a compiacere soprattutto l’autore stesso, celebrando ciò che più lo appassiona. D’altronde il cinema dell’ex leader degli White Zombie è diventato ben presto a sua volta oggetto di venerazione tra i fan dell’horror, grazie proprio alla sua costante aderenza a una poetica non tanto esplicitamente citazionista, ma che mira piuttosto a recuperare lo stile visivo e l’immaginario di quegli anni ’70 e ’80 che hanno partorito alcuni dei migliori prodotti del genere, con pellicole come Le colline hanno gli occhi (1977) e Nightmare (1984) di Wes Craven o Halloween (1978) di John Carpenter di cui Zombie ha realizzato gli assai meno affascinanti reboot Halloween – The Beginning e Halloween II. Ma con Le streghe di Salem il regista fa compiere un evidente passo in avanti alla sua poetica cinematografica, filmando un vero e proprio film-contenitore di tutto ciò che gli sta a cuore: immagini, musica, testi e lacerti storici della propria cultura, sua moglie.

Protagonista di Le streghe di Salem e sommo sacerdote di questa enciclopedia di cose belle da rielaborare e ri-frullare tramite lo strumento cinematografico è infatti la compagna di vita del regista Sheri Moon Zombie, qui nei panni di Heidi Hawthorne, dj radiofonica che si vede recapitare uno scrigno ligneo contenente il vinile dei misteriosi The Lords. Non appena la puntina del giradischi inizia a percorrere i solchi dell’LP la donna finisce vittima (e noi con lei) di un universo stregonesco del quale sarà la principale pedina in gioco.
Se nei precedenti capitoli della sua filmografia, pensiamo soprattutto a La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo, Rob Zombie è sembrato più concentrato su un’esibizione paratattica di bizzarrie horror-circensi, con Le streghe di Salem l’autore rivela invece una maggiore consapevolezza del linguaggio cinematografico e dei suoi meccanismi narrativi, arrivando a costruire un racconto assai più coeso, oltre che visivamente ammaliante e denso di riferimenti colti che spaziano dal cinema alla letteratura, alla storia degli Stati Uniti. Come infatti il titolo suggerisce, la storia è ambientata a Salem, nel Massachusetts, località nota in tutto il mondo per la sua caccia alla streghe e per aver dato i natali a quel Nathaniel Hawthorne (da cui non a caso la protagonista eredita il cognome) che con il suo romanzo La lettera scarlatta ha firmato una delle pagine più importanti della letteratura statunitense.

Nel mirino del regista c’è soprattutto la religione e in particolare quei padri fondatori che, in fuga da un’Europa poco propensa ad accettare i loro rigidi dettami, hanno importato e impiantato nel Nuovo Mondo il loro fanatismo, con le tragiche conseguenze che tutti conosciamo e che Hawthorne ha ampiamente descritto. Ma se gli eccessi religiosi sono dunque il vero male da debellare, ecco che gradualmente Le streghe di Salem ci indica un’altra strada da seguire, trasformandosi sotto i nostri occhi in un inno accorato alla femminilità, alla sua natura e al suo inestricabile, atavico mistero. Con un vero e proprio tocco di genio, Rob Zombie insieme alla religione e al soprannaturale ricusa poi ogni possibile cedimento alla Computer Grafica, prediligendo effetti rigorosamente analogici, come la sana vecchia prostetica e l’animatronica.
Nonostante la profonda ricchezza teorica e l’indiscutibile piacere visivo che genera, Le streghe di Salem riconferma però a lungo andare quella sostanziale incertezza narrativa che caratterizzava la precedente produzione dell’autore, evidentemente riottoso a rinchiudere il suo lavoro in una forma data e definitiva. Lo dimostrano soprattutto i molteplici finali della pellicola, di cui l’ultimo, che scorre insieme ai titoli di coda, è forse il meno riuscito e finisce per svilire con un brusco salto nella realtà l’afflato visionario che anima invece i momenti migliori del film.

Il tutto è condito come già accennato, da un sapido recupero di quanto di meglio la storia del cinema horror abbia finora dispensato. Nel dettaglio, Zombie preleva elementi di messinscena o narrativi da The Fog di Carpenter (la protagonista dj radiofonica), dall’Esorcista di Friedkin (i dolly sull’esterno della casa in cui sta per manifestarsi il demonio), dall’Albero del male – sempre di Friedkin – e da Il bacio della pantera di Schrader (l’albero, il neonato), sfiorando persino lo sperimentalismo visivo di Matthew Barney (la lisergica cavalcata a dorso di capra). Su tutti veglia poi aulico e indisturbato lo sguardo cavo della luna protagonista di uno dei primissimi capolavori del cinema fantastico: Le voyage dans la lune di Georges Méliès, quest’ultimo eletto a padre putativo e diabolico dell’intera stirpe registica in cui Zombie si riconosce.

Non si tratta però di citazioni né tantomeno di omaggi, ciò che muove il cinema di Rob Zombie e che si manifesta in maniera ben più esplicita in questo suo ultimo lavoro è un estremo feticismo, che dall’accorata glorificazione del corpo della sua attrice si trasferisce sui lacerti del cinema del passato e passa poi attraverso un utilizzo ragionato e calzante delle musiche, che mescolano il mantra satanico, il Requiem di Mozart e Venus in Furs dei Velvet Underground, brano che assume un ruolo preponderante nella vicenda. La scelta del brano non è ovviamente casuale: ispirata all’omonimo racconto di Leopold von Sacher-Masoch, Venus in Furs è un inno alla sottomissione e al piacere che ne deriva, che si trasforma qui sotto i nostri sensi (vista e udito in sincrono) in quello del regista di fronte al corpo della donna desiderata, allo status fugace delle immagini che hanno fondato il suo sguardo, alla musica con cui è cresciuto. Per un compendio traboccante amore e somma riconoscenza.

Info
Il sito ufficiale de Le streghe di Salem.
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