Grand Budapest Hotel

Grand Budapest Hotel

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Con Grand Budapest Hotel Wes Anderson apre ufficialmente le danze della Berlinale 2014. Una sarabanda umana avventurosa quanto basta, ma che convince meno del solito.

Mr. Gustave, il concierge

Il foyer di un albergo non è dissimile da un palcoscenico, e la leggendaria accoglienza che Monsieur Gustave riserva negli anni Trenta ai clienti del Grand Budapest lo dimostra in pieno. Egli conosce le inclinazioni e i desideri nascosti dei suoi ospiti eccentrici, in particolare delle anziane signore che vi soggiornano per brevi periodi. Una di queste, la signora D, lascia in eredità a Gustave un pregevole dipinto del Rinascimento… [sinossi]

La variazione sul tema, come espresso con forza e precisione cristallina nel precedente Moonrise Kingdom, è uno dei punti cruciali della messa in scena di Wes Anderson. Per quanto sovente i suoi detrattori ne segnalino l’immobilità creativa, la reiterazione dei punti di vista, l’utilizzo insistito di inquadrature e movimenti di macchina sempre perfettamente uguali a se stessi rappresenta uno dei tratti distintivi dell’opera del cineasta statunitense, tra i pochi della sua generazione ad aver lavorato sull’immaginario in modo così evidente da essere riuscito a trasformare determinati vezzi autoriali in veri e propri cliché, narrativi ed estetici. Da Bottle Rocket fino a oggi il cinema di Anderson non ha mai spostato il suo centro d’interesse, limando semmai le imperfezioni, livellando i toni, al punto che i film portati a termine (otto lungometraggi e due cortometraggi) sembrano più che altro rappresentare diversi capitoli di un unico lungo e articolato romanzo.

E proprio in capitoli è suddiviso Grand Budapest Hotel, il film scelto dalla Berlinale per aprire ufficialmente la sessantaquattresima edizione della kermesse tedesca: presentato in concorso, Grand Budapest Hotel era atteso con una malcelata trepidazione fin dalle prime immagini diffuse in autunno. Il precedente Moonrise Kingdom, che aveva invece lottato in maniera vana per la conquista della Palma d’oro nel 2012, aveva segnato con ogni probabilità il punto più alto all’interno della filmografia di Wes Anderson, trasformando la tenera storia d’amore tra due adolescenti in uno stupefacente saggio sull’amore, la predestinazione e la lotta dell’uomo contro il fato. I presupposti per far sì che Grand Budapest Hotel proseguisse il discorso da dove si era interrotto c’erano tutti: una narrazione nella narrazione (nella narrazione, visto che si parte da un tomo per arrivare a un dialogo vis à vis tra due uomini, uno dei quali intenzionato a svelare una storia privata quanto bizzarra), la collocazione a-spaziale e in fin dei conti a-temporale (il 1932 è un pretesto ai limiti del depistaggio), che da sempre affascina un regista poco propenso a confrontarsi in maniera diretta con la contemporaneità, amici e sodali di vecchia data a darsi battaglia sul set.
Ma il problema che affligge Grand Budapest Hotel impedendogli di ambire alle vette toccate in precedenza è proprio legato a una disaffezione inspiegabile verso la storia che Wes Anderson sta narrando in scena: al di là del turbinio di eventi che trascinano Grand Budapest Hotel in una bagarre infinita, corsa contro tutto e tutti che ricorda da vicino le comiche del muto – e in tal senso la fuga dal carcere arriva a sfiorare il sublime – ben poco del contesto rimane impresso nella mente. Si potrà probabilmente controbattere che la vacuità del racconto è voluta, ennesima beffa di Anderson nei confronti dello spettatore, ma non si coglierebbe il centro della disamina: Grand Budapest Hotel non ha una storia poco appassionante, ma bensì poco appassionata. Preso dai giochi interni al proprio cinema e dalle ossessioni che lo agitano, Anderson ha questa volta smarrito per strada l’umore che da sempre contraddistingue le sue opere, sostituendolo con uno stile come sempre ineffabile, ma in fin dei conti sterile.

Grand Budapest Hotel è un film divertente, a tratti spassoso, e le comparsate eccellenti che lo costellano producono di quando in quando oh di meraviglia e di compiacimento, ma appare privo della profondità riconoscibile al resto della filmografia del regista – si pensi quantomeno a Rushmore, Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Fantastic Mr. Fox. Come la splendida scenografia che palesa la sua finzione, anche Grand Budapest Hotel è poco più che uno sfondo, splendido ma a conti fatti vacuo. La delusione è parzialmente compensata da alcune sequenze e da determinati personaggi, a partire dal crudele e violento Willem Dafoe che trascina il M. Gustave di Ralph Fiennes e il lobby boy Tony Revolori in una discesa sciistica che lambisce i confini della comica animata; istanti di pura poesia dell’immagine in movimento, coerente con la poetica espressiva di un regista che corre ancora il rischio di essere sottostimato. Ma dopotutto anche nei romanzi può capitare di incappare in un capitolo meno coinvolgente, di semplice raccordo…

Info
Grand Budapest Hotel, il sito ufficiale.
Il trailer italiano di Grand Budapest Hotel.
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