Self/Less

Self/Less

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In Self/Less, Tarsem Singh occhieggia la science fiction più problematica, abbozzando una riflessione sull’identità e la corporeità: ma la sua costruzione si regge su basi deboli.

Nuovi corpi, vecchie anime

Al magnate Damian Hale, affetto da un cancro in fase terminale, sono rimasti pochi giorni di vita. L’uomo, venuto a conoscenza di una rivoluzionaria e costosissima tecnica che gli permetterebbe di sopravvivere, decide di tentare il tutto per tutto: lo “shedding” trasferirà infatti la sua coscienza in un nuovo corpo, giovane e in perfetta salute. L’intervento sembra riuscire: ma, dopo le prime ore, il “nuovo” Damian inizia a soffrire di allucinazioni… [sinossi]

Tarsem Singh è regista che, quando può lavorare su soggetti nelle sue corde, mostra più di una freccia al suo arco. Proveniente dal videoclip (un piccolo “classico” degli anni ’90, come il video di Losing My Religion dei R.E.M., era opera sua), più interessato all’impatto visivo delle sue opere che al racconto, il regista di origini indiane dà il suo meglio quando si trova ad operare su sceneggiature di matrice fantastica, o su rielaborazioni di vecchi archetipi. La misura, da sempre, non è caratteristica, né preoccupazione, del cinema di Tarsem: la strabordante inventiva del regista, la costruzione dell’immagine sempre (pericolosamente) a un passo dal kitsch e dalla saturazione gratuita, si esprimono al meglio quando l’universo di riferimento è adeguato, i legami e legacci con la realtà ridotti al minimo, i punti di riferimento rintracciabili in contesti altri. Il peplum postmoderno di Immortals, e l’originale rilettura di un racconto come quello di Biancaneve, stanno lì a dimostrarlo. Se nel caso di cineasti apparentemente simili, quali Zack Snyder, l’estro e l’inventiva funzionano (meglio) quando vengono contenuti e limitati, per il cinema di Tarsem vale apparentemente la regola opposta: il racconto non deve ostacolarlo più di tanto, e, laddove lo faccia, deve giocare con le sue regole. La premessa, doverosa, vuole sottolineare che questo Self/Less, nuova fatica del regista, soffre a monte di un problema concettuale.

Tra rimandi alla dialettica anima/corporeità di Avatar, alla science fiction più problematica di Source Code, e persino alle riflessioni sull’identità mascherate da action di Face/Off, lo script dei fratelli David e Alex Pastor punta in alto: troppo, probabilmente, sia per quello che i due sceneggiatori sono effettivamente in grado di raccontare, sia per quello che lo stesso regista si rivela interessato a mettere in scena. La vicenda di un vecchio e meschino magnate, malato terminale, che trasferisce la sua anima in un giovane e prestante corpo (quello di un poco convinto Ryan Reynolds) si rivela da subito poco più di un pretesto: la sostanza, l’identità filmica della pellicola di Tarsem, è quella di un action movie che nasce già datato, puntellato da una debole love story e da un ancor più debole sottotesto da melò familiare. Anche laddove si fosse digiuni di dettagli sulla trama, non si farebbe fatica a indovinare ogni singola svolta di un intreccio che urla da subito il suo carattere derivativo: fin dal primo sussulto del corpo di Reynolds immerso nel liquido vitale, e dalle prime, telefonatissime visioni del “nuovo” Damian/Mark, è trasparente la direzione che la sceneggiatura intraprenderà. Direzione puntualmente, e pedissequamente, rispettata.

In più, qui Tarsem sembra (più che altrove) smanioso di mettere in mostra la sua tecnica, scomponendo e complicando le sequenze d’azione, moltiplicando il numero dei tagli di montaggio, sincopando, spesso inutilmente, l’andamento del film. Il risultato, più che mai, sembra quello di un gratuito sfoggio di stile, che si regge tuttavia su gambe debolissime; il rischio di formalismo, che altrove il regista era riuscito a schivare, finisce qui per sopraffarlo. Tutto concentrato nella resa dell’immagine, Tarsem finisce inoltre per tralasciare la direzione degli attori; lasciando che Reynolds indossi, per tutto il film, una alquanto limitata gamma espressiva, che non provi neanche a replicare le fattezze del suo alter ego anziano Ben Kingsley, che la sua controparte col volto di Natalie Martinez accolga (quasi) senza colpo ferire le labili premesse della storia.
Nelle sue quasi due ore di durata, Self/Less dilata inutilmente l’estensione della vicenda, accumula lungaggini (l’incontro/scontro con lo scienziato nella casa di cura) e dettagli fuori tema (l’amicizia col personaggio interpretato da Derek Luke nelle fasi iniziali), cercando con poca convinzione di valorizzare la sua componente melò; senza, peraltro, avere nemmeno il coraggio di imboccare fino in fondo quella strada. Fino a una conclusione poco coerente con le sue premesse, che prova a stimolare un’emozione che ha latitato per tutta la durata del film. Poco, perché l’oblio non cancelli, rapidamente quasi quanto la noia ne ha coperto la visione, questa nuova prova del regista.

Info
Il trailer di Self/Less.
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