Intervista a Liu Shumin

Intervista a Liu Shumin

Non capita tutti i giorni di imbattersi in un esordio lungo quasi cinque ore, né di trovare un’opera prima che abbia il coraggio di mettere in scena una saga familiare. Anche per questo The Family (Jia il titolo originale cinese), che ha aperto fuori concorso la trentesima edizione della Settimana Internazionale della Critica, deve essere considerato un film prezioso. Ne abbiamo parlato al Lido con il regista Liu Shumin, affrontando anche questioni relative alla scelta di girare in 35mm, e alla produzione cinese contemporanea.

Sin dall’inizio hai pensato che il tuo film sarebbe stato così lungo?

Liu Shumin: Ho provato a fare un film dalla lunghezza normale, ma nel fare il film le cose sono cambiate. Infatti il modo in cui concepisco io il fare i film prevede la centralità degli attori, che devono recitare – secondo me – con i tempi che preferiscono loro e non in base a quello che viene loro imposto. Perciò, in questo caso, è successo che mentre facessero delle scene, facessero queste scene in maniera molto lenta. Più lentamente di quel che mi sarei aspettato. Ma era molto realistico e mi piaceva e quindi li ho lasciati fare. Non volevo rovinare la loro naturalezza, la loro spontaneità: volevo invece mantenerla, lasciarli andare. Ma facendo così il film diventava via via più lungo.

Quanto a lungo hai lavorato a The Family?

Liu Shumin: Considerando anche la fase della sceneggiatura, sono più o meno quattro anni. Le riprese invece sono durate tredici mesi.

E la sceneggiatura era già molto lunga?

Liu Shumin: In realtà la sceneggiatura era lunga circa trentaquattro pagine, ma quando ho cominciato a girare ho capito che quello che avevo riassunto in una sola frase diventava ad esempio un’inquadratura molto lunga. Ad esempio, la scena in cui l’anziana protagonista fa il bucato dura all’incirca due minuti. È andata così, che ho capito che sarebbe diventata lunga solo nel momento in cui l’ho fatta.

Come hai lavorato sulla struttura di queste inquadrature lunghe, di questi piano sequenza?

Liu Shumin: Mi piacciono i piano sequenza perché sono realistici. E poi credo che siano anche pieni di dettagli e dunque non li considero “mentalmente” lunghi. Nella mia idea, nel fare questo film, volevo che gli attori sembrassero spontanei. E a volte ci voleva del tempo che finissero quello che stavano facendo, per esempio cucinare, e io volevo rispettare anche questo.

Tu hai deciso sin dall’inizio di girare in 35mm?

Liu Shumin: In passato ho lavorato come direttore della fotografia e ho sempre preferito il 35mm, adoro la sua texture. Mi piace la ricchezza visiva che ha. Io credo che l’insegnamento della macchina da presa sia quella di provare a ottenere quello che il 35mm merita di ottenere. Ma siamo ancora lontani da questo. Per questo film ho pensato sin dall’inizio che solo il 35mm poteva darmi la qualità dell’immagine che volevo.

Perché sappiamo che in realtà in Cina, ancor più che in Europa, il digitale ha completamente sostituito la pellicola. Ce ne hanno parlato sia Diao Yinan che Yu Likwai. E, in particolare, quest’ultimo ha sottolineato il fatto che preferisce il digitale anche perché è più semplice e immediato ed è dunque – naturalmente – anti-elitario.

Liu Shumin: Sì, è vero. È così, sono assolutamente d’accordo. Però la qualità è minore. In Cina saranno ormai già cinque anni che nessuno usa più la pellicola. E questo è anche il motivo per cui non ho fatto la post-produzione del mio film in Cina e sono andato piuttosto a Taiwan. In realtà, prima di andare a Taiwan, ho provato a rivolgermi per il processo di stampa a un laboratorio in Corea del Sud, ma aveva chiuso. Poi sono andato a Hong Kong, ma aveva chiuso anche lì. Perciò alla fine sono dovuto andare a Taiwan e allora, quando ero lì, c’erano ancora due laboratori, ora ne è rimasto solo uno. Quindi, va sempre peggio per chi vuole ancora lavorare in pellicola. Ma perché ho affrontato così tante difficoltà pur di riuscire a girare in pellicola? Perché sono assolutamente convinto che la post-produzione digitale non avrebbe potuto restituirmi un’immagine con la stessa qualità con cui avrei voluto. La gamma e l’ampiezza dei cromatismi ancora non è paragonabile a quella della pellicola. Non mi piace il look dell’immagine digitale, non mi piace affatto!

Cosa pensi dell’occidentalizzazione della cultura e della società cinesi? Perché è anche di questo che parla il tuo film.

Liu Shumin: La cultura occidentale vuole sempre dimostrarci di essere migliore e ormai in Cina arriva di tutto, specialmente i film, ma non solo ovviamente. Si è finito per fare questo tipo di equivalenza secondo la quale l’unico tipo di cultura moderna è la cultura occidentale. Prendiamo per esempio il caffè, tutti oramai lo bevono. Lo abbiamo sempre bevuto, eppure è diventato anche lui un simbolo della cultura occidentale. E ovviamente non possiamo far nulla per evitarlo, se non evidenziare questo tipo di influenza così com’è.

In The Family ad esempio insisti molto, al contempo, nel mostrare l’anziana protagonista alle prese con la cucina. E quello che lei cucina è la cucina tradizionale, mentre tutto intorno a lei è cambiato, è diverso, è moderno se non ultra-moderno.

Liu Shumin: Certo, lei cucina così, perché ovviamente chi fa parte della vecchia generazione è meno influenzato dalla cultura occidentale. Al contrario invece la ragazza, che vive insieme al figlio maschio dell’anziana coppia, non sa cucinare per niente. Sì, ho provato a mostrare le differenze generazionali anche usando questo tramite, quello della cucina, ma non credo per reagire. Lei va avanti così per abitudine, finché non morirà.

Come hai scelto le location del film? Vi è ad esempio un capitolo ambientato a Shanghai, un altro a Fuzhou…

Liu Shumin: Quando ho finito di scrivere la sceneggiatura, ho fatto un lungo viaggio per scegliere le location. Prima di tutto sono andato in una zona a nord-est della Cina, nel Ganxu, perché è lì che si identifica l’inizio della cultura cinese. E si tratta di un’area anche oggi molto poco sviluppata. Poi sono andato a Fuzhou, nel sud-est. Questa era una città che non avevo mai visitato, una città in cui sono stati ambientati pochissimi film. E ho fatto sì che quella fosse la location della coppia di anziani protagonisti, perché è una città dell’interno molto tipica. Volevo una città che fosse in grado di dare emozioni diverse ad un sacco di persone diverse, non volevo un tipo di reazione unico, appiattito. Come Shanghai, del resto. All’inizio non volevo Shanghai perché pensavo che quella metropoli, così come anche Pechino, fosse troppo “mainstream” per il tono del film. Fuzhou per noi era quella che abbiamo chiamato the first line city, mentre come the second line city all’inizio avevamo scelto Hangzhou, invece di Shanghai. Ma poi c’era un problema logistico lì ad Hangzhou, vale a dire che si trova in un punto dove passano spessissimo gli aerei e quindi era impossibile girare lì, almeno per come avevo pensato il film. Perciò abbiamo dovuto abbandonare tutto quello che avevamo girato ad Hangzhou – perché qualcosa avevamo fatto – e ci siamo dovuti trasferire a Shanghai. Non è stato poi troppo complicato, perché sono due città vicine. E per fortuna, stando lì, ho scoperto un altro aspetto di Shanghai, un altro volto di questa città. Avevo studiato a Shanghai vent’anni fa, poi ci ero tornato di tanto in tanto e ho trovato una città completamente differente da allora. Questo perché io conoscevo solamente il lato moderno di Shanghai. E quando sono andato lì per cercare le location, girando un po’ ho trovato qualcosa di totalmente differente dai grattacieli e dalla parte occidentale per cui è famosa la città. Ho trovato invece una parte più antica, con vecchi appartamenti, vecchie strade. Non credevo ci fosse e invece c’è ancora. Perciò la Shanghai che si vede nel mio film è totalmente differente da quella che si vede di solito.

In The Family c’è una forte compresenza tra la fiction e il documentario. Ci sembra quasi che ogni singola inquadratura contenga entrambi gli elementi, proprio perché ogni inquadratura è molto realistica e, ad esempio, quando giri in strada inquadri a lungo anche i passanti, capitati lì per caso insieme ai protagonisti del film. Come hai lavorato su questo aspetto?

Liu Shumin: Non l’ho fatto in maniera intenzionale, ma penso che alla fine sia una cosa che riflette in maniera naturale le nostre vite, anche i tempi morti per così dire.

A un certo punto del tuo film avviene un accidente, che fa cambiare completamente il punto di vista…

Liu Shumin: In realtà la prima decisione che ho preso sul film, fin dall’inizio della fase di scrittura, è stata sul modo in cui avrebbe dovuto concludersi la storia. Ho concentrato l’attenzione sulle vecchie generazioni cercando di documentare la loro realtà, ma l’ho fatto con uno sguardo per niente ottimista. Io per primo non sono una persona ottimista. La vita quotidiana che vedo attorno a me contribuisce a cementificare questo punto di vista. Volevo che il film riflettesse in qualche misura la violenza che si respira: così ho messo in scena l’uccisione del pesce, quella della papera. Per quanto riguarda l’incidente, quando ero ancora sulla sceneggiatura mi sono imbattuto in un paio di news che raccontavano una storia simile a quella che poi ho inserito nel film. E ho pensato a come mi sarei potuto comportare io se mi fossi trovato in un situazione simile. Magari avrei agito nello stesso modo in cui agisce il personaggio, chi può dirlo? La sequenza finale a mio avviso pone un dilemma universale, perché si concentra su quel che rappresenta la famiglia, e sul ruolo che assume. Anche per lo spettatore è difficile prendere una posizione netta, secondo me. Fino a quel momento ci siamo concentrati su una sola famiglia, ma in realtà il discorso è universale. Per questo era fondamentale un cambio di prospettiva.

Si può dire che il tuo film non parla di una famiglia, ma del concetto stesso, del significato del termine “famiglia”.

Liu Shumin: Credo che la famiglia rappresenti il nucleo fondativo della cultura cinese. Credo che questo discorso possa essere valido anche per la cultura italiana. Anche per questo mi piaceva cambiare la prospettiva da cui di solito si guarda a ciò. Non più l’idea di una famiglia, ma quella del concetto stesso di famiglia. Sì, è così.

L’utilizzo dei flashback all’interno del tuo film è molto particolare, perché scegli di eliminare completamente il sonoro…

Liu Shumin: Quando ho scritto la sceneggiatura non avevo idea di come avrei messo in scena questi flashback. In realtà volevo che lo spettatore provasse la sensazione di essere immerso in un sogno. Quando per esempio vediamo il ricordo della anziana signora da giovane voglio che ci si chieda se si tratta davvero delle memorie della donna oppure di un sogno fatto dal figlio. È la prima volta che il figlio si confronta davvero con la storia della madre. Per questo volevo rendere l’idea di un viaggio onirico. E qual è il modo migliore per rendere questa idea se non eliminare il sonoro? Ogni suono, infatti, dà inevitabilmente un tono a quel che appare sullo schermo. Limita l’immaginazione, la guida.

Come hai scelto gli attori?

Liu Shumin: La prima cosa che ho fatto è stata scegliere le location. Una volta scelte, mi sono messo alla ricerca di attori che vivessero lì. Questa è la mia strategia. Non sempre però è possibile trovare degli attori che siano adatti a quel che devo mettere in scena, e quindi sono stato pronto a cambiare il mio modo d’agire. Per di più io non voglio lavorare con attori professionisti, perché in Cina i professionisti sono molto asettici, e non sarebbero stati in grado di calarsi nella “mia” famiglia. I non professionisti, invece, hanno esperienze di vita e di lavoro completamente diverse dal set, e sono in grado di arricchire la mia storia, di infondere vita nei miei personaggi.

Il tuo film fa venire in mente subito dei rimandi al cinema di Yasujiro Ozu. Quali sono i tuoi punti di riferimento?

Liu Shumin: È vero solo in parte. Senza dubbio Ozu è uno dei miei registi preferiti, e amo i suoi film. Ma credo che il rimando tra The Family e il suo cinema sia dovuto in gran parte al fatto che il concetto di famiglia in Giappone è molto simile a quello cinese. In realtà io ho voluto mettere nel film la mia esperienza, omaggiando la mia famiglia e riflettendo in gran parte su di me. Per la messa in scena i miei riferimenti, oltre a Ozu, sono a Hou Hsiao-hsien, Edward Yang, Abbas Kiarostami e anche Takeshi Kitano. Tutti loro mi hanno influenzato. Se vogliamo il riferimento più diretto, anche per l’uso del piano sequenza, è a Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang. Ma tutti questi maestri sono dei numi tutelari, per me.

Tu hai vissuto anche in Australia. Facciamo riferimento a questo perché a Cannes abbiamo visto a maggio l’ultimo film di Jia Zhangke, Mountains May Depart, e l’ultima parte del film è ambientata proprio in Australia. Volevamo chiederti cosa ne pensi del cinema cinese contemporaneo. Pensiamo per l’appunto a registi come Jia, o Yu Likwai, o anche Diao Yinan, che ha vinto l’Orso d’Oro nel 2014 con Fuochi d’artificio in pieno giorno

Liu Shumin: Per parlare di questo dobbiamo necessariamente partire da quel che è oggi l’industria cinematografica cinese. Per me la situazione è tragica, perché il cinema viene fatto esclusivamente allo scopo di produrre denaro, e sembra che ci si sia dimenticati del reale scopo del cinema, che è quello di arrivare al pubblico, emozionare, entrare nel cuore dello spettatore. Ora ci si ferma al divismo, alle strategie per fare soldi, mentre per fare un film bisogna partire dal proprio cuore. Molti film incassano cifre considerevoli, ma non sono altro che spazzatura. Film che non cambiano nulla. È molto difficile trovare qualcuno che voglia produrre film come il mio, e per questo mi considero davvero fortunato. Per quanto riguarda invece i registi, mi piace molto Xiao Wu, l’esordio di Jia Zhangke, e anche Still Life, ma sono gli unici suoi film che apprezzo. Per me, Jia è un regista troppo teorico. Non amo per esempio Platform, perché si basa troppo sul concetto da cui parte, i suoi personaggi non sono reali. Lo stesso vale per 24 City e per gli altri suoi film, eccetto Xiao Wu e Still Life. Di Diao Yinan apprezzo i suoi primi due film, Uniform e Night Train, ma non amo un granché Fuochi d’artificio in pieno giorno, che fa di tutto per risultare interessante ma rimane secondo me troppo pretenzioso.

Abbiamo citato questi film perché ci sembra che nelle intenzioni dei registi ci sia anche la volontà di ragionare in maniera critica sulla Cina contemporanea e sull’influenza della cultura occidentale, in maniera non troppo dissimile da quel che fai tu in The Family.

Liu Shumin: Quando sono uscito dal mio paese per studiare all’estero, pensavo che la Cina fosse una nazione ingiusta. Mi sono presto reso conto di come questa ingiustizia sia generale, riguardi il mondo intero. Non si tratta solo del sistema cinese, o di quello statunitense, o ancora dell’Unione Europea. È un’ingiustizia diffusa, che credo provenga solo dall’essere umani in quanto tale. È una degenerazione dell’essere umano. Per esempio da principio credevo che la democrazia occidentale fosse il modello da seguire per risolvere le ingiustizie, ma ora non lo penso più. Ovunque gli stati e i governi commettono crimini, e l’obiettivo del popolo deve essere quello di dimostrare che si può vivere in pace. Lo stato ideale non esiste.

Info
La scheda del film di Liu Shumin sul sito della SIC.

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