Detroit

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Detroit cala il cinema di Kathryn Bigelow negli scontri urbani che nel 1967 videro protagonisti la polizia e la popolazione afrodiscendente ghettizzata. Un’immersione nell’America mai pacificata, che volge lo sguardo indietro di cinquant’anni per rintracciare coordinate odierne, magma di dolore, sangue, confusione e impossibilità a “integrarsi”. Al Festival di Roma e nelle sale a partire dal 23 novembre.

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La storia è ispirata alle sanguinose rivolte che sconvolsero Detroit nel 1967. Tra le strade della città si consumò un vero e proprio massacro a opera della polizia, in cui persero la vita tre afroamericani e centinaia di persone restarono gravemente ferite. La rivolta successiva portò a disordini senza precendenti constringendo così a una presa di coscienza su quanto accaduto durante quell’ignobile giorno di cinquant’anni fa… [sinossi]

Detroit, la motor city, la città industriale per eccellenza che vede marchiato su di sé anche il segno dell’infamia più infangante per una società capitalista: il fallimento, la bancarotta che la ridusse sul lastrico nel 2013. La città-fantasma di oggi, raccontata anche da Jim Jarmusch nel vampiresco Solo gli amanti sopravvivono, è lo spettro di quella capitale rutilante che negli anni Sessanta si segnalava come la quinta città per popolazione dell’intera nazione. Ora, dopo il crollo dell’industria automobilistica, si aggira intorno al ventesimo posto. Ora Detroit è solo lo specchio di un paese che non vive alcun tipo di dream, l’immagine impossibile da eludere di una crisi culturale, economica e politica. La crisi di un ideale, di un progetto sociale che aveva illuso milioni e milioni di statunitensi. Illusione che per molti, come gli abitanti del ghetto afro-americano di Detroit, era ben chiara anche cinquant’anni fa, quando centinaia di abitanti misero a ferro e fuoco un’intera area della città, spingendo la Guardia Nazionale, la polizia locale e perfino l’esercito in una guerriglia che in qualche modo riportava su suolo statunitense quel che le truppe stavano vivendo a migliaia di chilometri di distanza, nella giungla umida e fangosa del Vietnam. Una nazione in guerra, questa è l’America che viene descritta in Detroit, nuovo film di Kathryn Bigelow che raggiunge l’Auditorium Parco della Musica di Roma a quasi tre mesi di distanza dalla sua uscita nelle sale patrie; è interessante notare come dato puramente statistico (o forse non solo) come l’interrogativo che si pone Bigelow sulla natura profonda della sua nazione sia in qualche modo riscontrabile in altri due film battenti bandiera a stelle e strisce visti a Roma, Hostiles di Scott Cooper e Last Flag Flying di Richard Linklater. La storia di ieri (le guerre indiane per Cooper, il 1967 in Detroit e la seconda guerra del Golfo nel film di Linklater) è il primo dato saliente per cercare di leggere quel che sta accadendo oggi, in questi mesi, in una società multi-strato eppure così all’apparenza semplice da leggere, così diretta nei suoi propositi, così evidente nelle sue scelte di campo.
Sulla carta, nelle sue due ore e venti minuti di durata, Detroit racconta con dovizia di particolari quel che accadde a Detroit cinquant’anni addietro, le macchine incendiate per strada, la guerriglia, e in particolar modo lo scempio compiuto dalla polizia nel motel Algiers, con tre ragazzi di colore uccisi: Carl Cooper, 17 anni, Fred Temple, 18 anni, e il diciannovenne Aubrey Pollard. Questo sulla carta…

Kathryn Bigelow non ha alcuna intenzione di lasciare alcunché al caso, e costruisce il suo film cercando di dettagliare in maniera particolareggiata gli eventi: l’incipit diventa dunque a suo modo una monumentale narrazione di un’America confusa, amareggiata, in cui le divisioni razziali e il predominio della classe bianca – eternamente dominante – aveva spinto la situazione al collasso, con tutte le inevitabili conseguenze del caso. Come sempre, nel cinema della regista di Point Break e The Hurt Locker, l’immagine geometrica che viene alla mente è quella di un tetragono, una superficie leggibile su quattro lati diversi, mostrati nella loro interezza e senza mai scegliere la via più facile, né la più diretta. Certo, non v’è dubbio alcuno che i comportamenti dei poliziotti, a partire dal mefistofelico Philip interpretato con sulfurea crudeltà da Will Poulter (sì, proprio il ragazzino sperduto di Revenant di Alejandro González Iñárritu, qui alla sua prova attoriale più convincente), siano stigmatizzati con cura, e non c’è neanche dubbio sul fatto che il film faccia una scelta di campo ben precisa. Ci sono stati dei carnefici e delle vittime, e i primi non erano solo i membri del corpo di polizia e le seconde non erano solo chiuse nell’Algiers. Detroit, senza mai uscire dal contesto storico, allarga la visuale al sistema statunitense nel suo complesso, lo giudica mostrandone l’iniquità nel giudizio – al processo i tre poliziotti colpevoli di omicidio e di violenze ripetute su innocenti vennero assolti con formula piena –, lo guarda con la mestizia con cui si potrebbe osservare un sogno svanito all’alba, magari mentre ci si mette in marcia per andare a lavorare per la Ford, per costruire quelle macchine che poi potranno essere comprate e guidate quasi solo da bianchi, sicuramente da padroni che non lasceranno che una piccola mancia e una pacca sulle spalle a quella classe operaia costretta a vivere di nulla, o quasi.

Anche l’illusione più grande, quella di sfondare nello show business (un settore solo in apparenza democratico, come illustra con lucida delusione Larry Reed,, il cantante solista – all’epoca – dei Dramatics) è destinata a svanire nel nulla, perché come si fa a ingrassare il sistema quando i tuoi fratelli vengono trattati come bestie, e come bestie uccisi solo per il fatto di essere giovani, neri, e magari di piacere a qualche ragazza bianca? È un film privo di speranza, Detroit, perché la speranza è morta con il massacro di Detroit, è morta con gli omicidi di Malcolm X, Fred Hampton, Huey P. Newton, è morta con la guerra del Vietnam, le due guerre del Golfo, con le scaramucce con la Corea del Nord. Non ha più speranza di redenzione, l’America, perché la sua colpa, il suo tradimento, è troppo grande; così grande quella colpa che la si può evidenziare anche solo fermandosi a un attimo, a un pugno di ore, a combattimenti per le strade.
I personaggi chiave di Detroit non sono i poliziotti sadici, e neanche le due ragazze bianche: i personaggi chiave sono Larry Reed e Melvin Dismukes, il vigilante (afrodiscendente) di un negozio che cercava a suo modo di mediare tra i metodi delle forze dell’ordine e i fratelli neri. Il primo, illuminato sulla via di una Damasco di sangue, prende volontariamente le distanze da qualsiasi rapporto con la società, con quel mondo di fuori che non potrebbe riservare a lui altro che sottomissione, anche magari con un contratto Motown in tasca. Il secondo, “nero che fa il bianco”, è l’anello di congiunzione impossibile tra classe dominata e classe dominante. Si illude di essere un anello di congiunzione, ma resterà nel mezzo schiacciato, distrutto, annientato. Non esiste integrazione, esiste solo ed esclusivamente sottomissione. Si potrebbero in realtà spendere migliaia di battute sullo stile di Bigelow, sul guerrilla-movie che lascia senza fiato, su quel restare incollato agli orrori che si perpetrano nell’Algiers e ancor prima per strada – folgorante la morte del giovane “ladro” sotto il furgoncino, dissanguato dalle fucilate ricevute nella schiena dalla polizia –, e non c’è dubbio che Detroit rappresenti il rovescio della medaglia nella mostra delle atrocità rispetto a Dunkirk di Christopher Nolan, per restare a parallelismi recenti. L’aulico distacco etereo viene stravolto da un furore belluino, distruttivo, che non porta con sé alcuna decenza, alcun miglioramento, e neanche una riflessione dello Stato sulle proprie responsabilità.
Ma resta soprattutto, perfino sopra la matassa cinematografica che lo avvolge, un discorso politico chiaro, privo di compromessi, per niente allineato alla prassi. Un colpo al cuore del sistema lanciato con le armi proprie del sistema, peculiarità non nuova nel percorso artistico di Kathryn Bigelow. Detroit non sarà il film più memorabile della sua filmografia, ma in un 2017 arido per la produzione hollywoodiana resta un lampo nel deserto. Un tuono che presagisce una pioggia che forse, ahinoi, non arriverà mai.

Info
Il trailer di Detroit.
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