Senza lasciare traccia

Senza lasciare traccia

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Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs 2018, Senza lasciare traccia segna il ritorno alla regia di Debra Granik, otto anni dopo il successo internazionale di Un gelido inverno e quattro anni dopo il documentario Stray Dog. Un’attesa non vana, che ci restituisce un’autrice indipendente dallo sguardo limpido, umanista, sottilmente politico, non distante dalla poetica e dall’efficacia narrativa di Kelly Reichardt.

Vivere in fuga

Tom ha quindici anni. Vive clandestinamente con suo padre nella foresta che confina con Portland, Oregon. Limitando il più possibile i loro contatti con il mondo moderno, formano una famiglia atipica e funzionale. Espulsi improvvisamente dal loro rifugio, ai due solitari viene offerto un tetto, una scuola e un lavoro. Mentre il padre lotta per adattarsi, Tom scopre questa nuova vita con curiosità. È tempo che lei scelga tra l’amore filiale e questo mondo che la chiama… [sinossi]

È limpido il cinema di Debra Granik. Chiaro ma mai didascalico, indipendente ma non indie, fedele a una poetica e a una visione del mondo (della società, degli uomini, della natura…) invidiabile. Un po’ come Kelly Reichardt (Wendy and Lucy, Meek’s Cutoff, Night Moves), altra eroina del cinema indipendente a stelle e strisce, entrambe capaci di raccontare e raccontarci un’America non standardizzata. Luoghi e paesaggi da (ri)scoprire, da osservare da vicino.
Sulla Croisette, alla Quinzaine des Réalisateurs 2018, ci si è potuti addentrare tra i boschi di Leave No Trace, che diventa in italiano Senza lasciare traccia. Un ritorno, in un certo senso. La Granik ci aveva già preso per mano e accompagnato tra i paesaggi boschivi di Un gelido inverno, dietro a una ragazzina che sarebbe poi diventata una stella – Jennifer Lawrence, sembra passata un’era geologica. Quattro anni più tardi l’avevamo seguita on the road nel documentario Stray Dog. È quasi naturale, quindi, addentrarsi nel vastissimo e meraviglioso parco naturale di Senza lasciare traccia, nella casa di Will e Tom. Padre e figlia. Un piccolo nucleo famigliare in un bosco, tra gli alberi, a bere acqua dal muschio, allenandosi a nascondersi in fretta, a far perdere le proprie tracce, a vivere immersi nella natura. A vivere lontano dal resto del mondo.

Will fortunatamente non è Ben di Captain Fantastic, perché tra indie e indipendente scorrono tanti fiumi. Lo sguardo della Granik è infatti diretto, come la sua narrazione e i suoi personaggi, privo di filtri à la page. Uno sguardo che si posiziona all’altezza dei protagonisti e dei comprimari, che non giudica, non gigioneggia, non prende facili distanze – emblematica, in questo senso, la cura posta nel rapportarsi e raccontare i biker di Stray Dog. Non semplice equidistanza, ma comprensione: il cuore è per Will e Tom, ma la ragione non costruisce castelli in aria, non punta per forza il dito contro il sistema – non tutto, perché ogni sistema è fatto di tanti ingranaggi e tra questi anche amorevoli assistenti sociali ed enti utili.
La parabola di Will e Tom, che a Cannes 2018 per una pura coincidenza di programmazione s’intreccia sul grande schermo con quella più complessa e sofferta di Lara in Girl, prende inevitabilmente due direzioni diverse. Padre e figlia, molti tratti in comune, ma due vite da vivere – e (soprav)vivere. Perché, in fin dei conti, anche chi ha deciso di vivere in fuga dalla società e dalle sue gabbie rischia a sua volta di incatenare chi è più debole. Ma anche in questo caso, il cinema della Granik ci restituisce un quadro stratificato, cogliendo turbamenti e mutamenti dell’adolescente Tom, ragazzina che vuole trovare una casa, un equilibrio, un possibile punto d’incontro tra la natura e la comunità umana. Non la città, quasi aliena, ma un luogo dove la condivisone possa cancellare la solitudine, la fuga.

Se Will è un survivalist che si sarebbe adattato volentieri allo scenario post-catastrofico raccontato da Stephen Fingleton, Tom è una Wendy pacificata, lontana dalle inquietudini raccontate dalla Reichardt. Ma il contesto è lo stesso, simili sono i buoni samaritani e questa America rurale, accogliente, possibile. Senza lasciare traccia sembra quasi dilatare all’estremo il tempo che si erano presi Mark e Kurt in Old Joy (2006) della Reichardt. Complice l’Oregon e i suoi boschi, torniamo sempre lì, alla Reichardt. A un cinema accuratissimo nella messa in scena, nel ritrarre la natura, nel tratteggiare i suoi eroi (e soprattutto le sue eroine), ma mai leccato, mai interessato alla superficie. Un cinema che ragiona sulle fughe e sui compromessi, sui legami coi luoghi o con le persone. Sui contesti culturali, sociali e politici. Una poetica che riesce a racchiudersi in uno sguardo (Wendy and Lucy) o in una piccolo e segreto segnale d’amore (Senza lasciare traccia). È limpido e struggente il cinema di Debra Granik.

Info
La scheda di Senza lasciare traccia sul sito della Quinzaine.
Il trailer originale di Senza lasciare traccia.
Il sito ufficiale di Senza lasciare traccia.
La pagina facebook di Senza lasciare traccia.
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