The Irishman

The Irishman

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Per nulla epico, a tratti funereo e stilisticamente anche poco vistoso, The Irishman di Martin Scorsese è un articolato requiem su gangster consunti, un omaggio accorato e sincero al talento dei suoi interpreti. Alla Festa del Cinema di Roma 2019.

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Il veterano della II guerra mondiale, Frank Sheeran, truffatore e sicario per conto della mafia, racconta gli eventi malavitosi di cui è stato protagonista nel corso di almeno tre decenni, affrontando anche uno dei più oscuri misteri irrisolti della Storia americana, la scomparsa del sindacalista Jimmy Hoffa. [sinossi]

Quella del gangster, specie poi nella sua variante mafiosa italo-americana, è di fatto una maschera ben codificata e frequente del cinema statunitense, amara, tragica, talvolta grottesca, sbruffona, sorniona e perfino gaudente. L’abbiamo vista innumerevoli volte e la rivedremo ancora, ne è certo anche Martin Scorsese che con The Irishman, torna a cimentarsi con una nuova, fluviale (210 i minuti di durata) narrazione malavitosa (lo erano già Mean Streets, Casinò e Quei bravi ragazzi, nonché la serie tv Boardwalk Empire), prodotta stavolta da Netflix e presentata alla Festa del Cinema di Roma prima di raggiungere per una breve finestra qualche sala nostrana.

È un film dai toni sepolcrali, mortiferi The Irishman, costellato di simulacri e “maschere” che evocano un passato che non c’è più. Ma, pur essendo uno degli autori più apertamente cinefili di sempre, Scorsese questa volta non esprime nostalgia né citazionismo verso il cinema di ieri, piuttosto rimpiange i corpi giovani dei suoi attori, trasformandoli sullo schermo quasi in ideali gusci vuoti che lui brama poter riempire, ancora e ancora, di nuovi personaggi e nuove storie, pur sapendoli senili. È questo che trasmette principalmente il volto ringiovanito digitalmente di Robert De Niro in buona parte del film, tragicamente incollato alle giunture di un corpo che invece, in tutta evidenza, è proprio il suo di oggi.

Tratto dal romanzo di Charles Brandt L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa, The Irishman è il racconto che Frank Sheeran (De Niro) fa in prima persona, oramai anziano e ricoverato in una casa di riposo, a qualcuno (forse lo spettatore stesso) venuto a raccogliere la sua testimonianza su un trentennio di sanguinosa vita criminale. Il racconto autobiografico segue inizialmente diversi piani temporali: c’è il presente in cui Sheeran/De Niro è ottuagenario, la storia della sua iniziazione mafiosa e c’è poi un passato un po’ meno remoto in cui sta accompagnando il suo padrino Russell Bufalino (Joe Pesci) a un importante matrimonio di famiglia. Su questo frammento si concentrerà poi prevalentemente film, perché durante il viaggio il protagonista apprenderà qual è la sua “vera” missione. Bufalino ha infatti da tempo affiancato Sheeran al celebre sindacalista Jimmy Hoffa (uno strepitoso Al Pacino), con il quale la mafia gestisce una serie di affari illeciti (come i finanziamenti al gioco d’azzardo), ma quando Hoffa cade in disgrazia, viene inquisito dalla Commissione Giustizia guidata da Bob Kennedy, condannato e infine estromesso dalla sua creatura sindacale, inizia a essere un personaggio scomodo. E allora, come nella migliore delle tragedie, toccherà proprio a Sheeran eliminarlo.

Parallela a questa vicenda malavitosa, scorrono, ma forse ne sono solo una versione “mascherata”, le faccende della Politica con la maiuscola, ovvero l’ascesa della famiglia Kennedy e l’elezione a presidente di JFK, foraggiata e sostenuta dalla mafia, così come poi il fallimentare attacco al regime di Fidel Castro nella Baia dei Porci. L’irlandese a cui fa riferimento il titolo, d’altronde, non è solo il glaciale e impeccabile esecutore mafioso Frank Sheeran, ma anche JFK e, per esteso, la sua stirpe mendace e ingrata (almeno per la mafia). Mentre rispolvera questi parallelismi tra Storia americana, vicende di personaggi realmente esistiti e di altri inventati, un po’ come avveniva nel romanzo di James Elroy American Tabloid (viene anche nominato il famigerato boss Sam Giancana, mentre J. Edgar Hoover è stranamente assente dal racconto) The Irishman, forte dell’articolato intreccio ordito dallo sceneggiatore Steven Zaillian (già al fianco di Scorsese per Gangs of New York) inanella però prevalentemente una serie di sequenze da camera, fatte di dialoghi anche raffinati e sottili – specie nei riferimenti alla politica e alla Storia statunitense – ma a lungo andare farraginose e poco remunerative da un punto di vista del piacere visivo spettatoriale. Fanno capolino poi, ogni tanto anche delle fugaci sortite nel ménage domestico del protagonista. Qui, particolarmente riuscito risulta il tratteggio del rapporto difficile tra Sheeran e la figlia Peggy (Lucy Gallina da piccola, Anna Paquin da adulta, entrambe molto convincenti), testimone silenziosa e consapevole delle malefatte paterne.

Con quest’ampia parte centrale piuttosto statica, The Irishman sembra dunque prendere una piega più verbosa e concentrarsi prevalentemente sulle interpretazioni delle sue tre star e sulle relative “maschere” da loro indossate, che vanno dalla faccia digitalizzata di De Niro, oltretutto dotato di occhio ceruleo, alla vistosa chioma posticcia di Pacino/Hoffa, fino alle rughe scavate nel volto di creta di un Joe Pesci che giganteggia decrepito verso il finale del film.

Coerentemente con il suo discorso sulla decadenza fisica e sulla consunzione del gangster, Scorsese pratica in The Irishman anche una certa ascesi dello stile, rinunciando all’epica, all’abituale playlist pop-rock, cimentandosi con parsimonia nei suoi tipici, virtuosistici movimenti di macchina da presa: dopo lo splendido l’incipit penetrante sinuosamente nell’ospizio, movimento che tornerà in parte nel finale, si fa notare, in particolare, anche quella steadycam a seguire gli assassini che poi va a chiosare pudicamente su dei fiori variopinti nella vetrina di un negozio. Non c’è poi qui nulla di apparentabile alla rocambolesca e dopata sequenza del sugo di Quei bravi ragazzi, in compenso troviamo Joe Pesci intento a pontificare mentre condisce con slancio un’insalata, c’è poi un inquietante discorso su un misterioso pesce fetido trasportato nell’auto e dei gustosi riferimenti a un gangster dalle orecchie a sventola che però pare essersi avvalso della chirurgia estetica.

Ma nel complesso no, non sono certo dei gaudenti i malavitosi di The Irishman, tutt’altro, non sembrano neanche uccidere per arricchirsi, e poi sono freddi, brutali, poco attraenti, persino poco spavaldi, spesso statici, per nulla eroici. Sono tragici però, questo sì e, soprattutto, sono vecchi. E allora viene da pensare che Scorsese con questo suo ritorno al mafia-movie, rispolverando tra l’altro i suoi attori feticcio De Niro e Joe Pesci, abbia voluto soprattutto esorcizzare la loro morte, allontanandola, ancora una volta, ancora per un po’. E allora, a chi parla l’irlandese/Robert De Niro per l’intera durata del film? Con lo spettatore certo, ma in fin dei conti, di fatto, con Scorsese stesso, è a lui che si rivolge, a lui che lascia aperta la porta della stanza da letto della casa di riposo, perché è l’unico che ha il diritto di ucciderlo, con una sinuosa steadycam, una dissolvenza o magari un taglio netto di montaggio che fa piombare tutto nel nero. Forse, ancora una volta, in questa storia è proprio Scorsese l’ultimo eroe romantico, l’unico ancora in grado di credere che non c’è vita fuori dal cinema, e che solo al cinema è giusto invecchiare e morire.

Info:
La scheda di The Irishman sul sito della Festa del Cinema di Roma.
Il trailer di The Irishman.

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