Silence

Silence

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In Silence Martin Scorsese torna a ragionare sul significato di fede, sul conflitto culturale e sulla necessità di aprirsi all’altro per comprendere se stessi, e dare un reale peso alle proprie convinzioni. Con Andrew Garfield, Adam Driver, Shinya Tsukamoto, Liam Neeson, Tadanobu Asano e Issei Ogata.

Di villaggio in villaggio

Silence narra di due preti gesuiti portoghesi che nel 1638 partono alla volta del Giappone per indagare sul presunto abbandono formale della religione da parte del suo mentore Ferreira. Arrivati a destinazione, saranno testimoni delle persecuzioni ai danni dei Cristiani… [sinossi]

Silence si apre tra le nebbie giapponesi, con due teste mozzate a monito e guardie armate a controllare il territorio. Nell’era Tokugawa, conosciuta anche come “periodo Edo”, inaugurata con la vittoria delle truppe capitanate da Ieyasu Tokugawa nella battaglia di Sekigahara (1600) [1], il cristianesimo venne bandito, e gli adepti subirono una dura repressione; questo piano rientrava nel progetto di sakoku, paese blindato, voluto dallo shogunato per impedire al Giappone di risultare schiacciato dalle grandi potenze navali dell’occidente. La rotta verso est era in piena espansione, e la colonizzazione europea passava anche, e a volte soprattutto, attraverso l’evangelizzazione. Il conflitto religioso veniva dunque a sovrapporsi a quello politico ed economico. In reazione a questo, e diversamente da molte realtà vicine – la Cina e la Corea in particolar modo – il Giappone decise di chiudersi completamente all’esterno. In un regime di pensiero che rendeva sinonimi gli aggettivi “cristiano” ed “europeo”, i primi dovevano essere espulsi. Estirpati o, ancora meglio, redenti.
Non è però il carattere storico, né la sua stretta veridicità, a interessare in particolar modo Scorsese, come dimostra la scelta di inserire tra i personaggi anche il gesuita Alessandro Valignano, tra i più importanti missionari dei suoi tempi, già morto da decenni però al momento dei fatti narrati in Silence (il film inizia nel 1637, con la rievocazione della “rivolta di Shimabara” [2], e arriva fino al 1683). La storia dei gesuiti Sebastião Rodrigues e Francisco Garupe, decisi a raggiungere il Giappone per continuare l’evangelizzazione delle genti e al tempo stesso scoprire cosa è davvero accaduto al loro mentore Padre Ferreira – del quale si dice che abbia fatto pubblica abiura del suo credo –, non vuole “solo” aprire gli occhi al publico sulle atrocità patite dai cristiani nella terra del Sol Levante. Silence non è un racconto sulla “parola di Dio” ma, come afferma il titolo stesso, sul suo silenzio.

Padre Rodrigues, il vero protagonista di un vicenda che si sviluppa in tre passaggi chiave (il primo contatto con le comunità clandestine cristiane, nelle isole del sud dell’arcipelago di Gotō; l’errare solitario di Rodrigues dopo la separazione con il suo fratello; la detenzione e il processo di fronte all’inquisitore Inoue), si reca in Giappone per portare il verbo, la verità, e si trova di fronte non solo a una terra che non la vuole recepire, ma anche e soprattutto a una coscienza che lo fa dubitare di sé e delle sue stesse azioni. C’è un afflato epico, un monumentalismo credente che domina Silence e in qualche modo inesplicabile lo inghiotte: la ieratica potenza delle immagini, lavorate fino allo stremo, lo stordente potere di qualcosa che è immateriale spodesta la viscerale (pre)potenza scorsesiana, spostandola in territori che potrebbero apparire più consoni a Terrence Malick. Non nuovo a mettere in scena la religione e la violenza che in un modo o nell’altro da essa sgorga e a essa viene ricondotta, Scorsese stavolta si inerpica in territori eterei, quasi che il “silenzio di Dio” da metaforico dovesse risultare naturale, empirico, comprovabile.
Nel suo percorso Scorsese potrebbe essere un novello Rodrigues, costretto a porre sotto inquisizione il proprio concetto di fede, e di credo in quanto tale. Se c’è una vera potenza in Silence, non va però ricercata tanto nella cura formale o in uno sguardo che cerca di rintracciare rivoli di ascetismo, ma semmai nell’asciuttezza laica con cui poi, alla fine, il regista deve sempre tornare a fare i conti. Un corpo che galleggia, oramai privo di vita, dopo aver cercato di salvare altri esseri umani, per esempio. Vale da solo il personaggio del povero diavolo Kichijiro, quasi un rinnegatore di professione (ha già fatto abiura mentre la sua famiglia veniva sterminata, e non perde occasione per compiere lo stesso gesto più volte nel corso del film), che nella sua postura ricorda alcune figure archetipiche del cinema di Akira Kurosawa, non ultimo il Kikuchiyo interpretato da Toshirō Mifune ne I sette samurai. È lui, prima ancora di Rodrigues e Garupe, il vero personaggio chiave di Silence, insieme a Mokichi, il “kirishitan” (così i cristiani venivano chiamati in Giappone) portato in scena da un eccellente Shinya Tsukamoto, che da regista più volte si è soffermato sull’idea di martirio, di corpo come elemento umano/politico [3].

Nel mostrare un mondo chiuso, Scorsese ne contrappone un altro, dominato dalla paura: i villici con cui entrano per primi in contatto i gesuiti non vogliono raggiungere i villaggi vicini, né che si allontanino i loro ‘padres’. I kirishitan sono un microcosmo a se stante, altrettanto chiuso di quel mondo buddista (e shintoista, elemento che in Silence viene omesso con un po’ troppa facilità, visto che proprio l’era Tokugawa dà ulteriore spinta al sincretismo tra il credo nativo giapponese e il buddismo, importato invece dalla corte cinese) che li combatte. Esemplare, per stratificare il discorso, la metafora delle quattro concubine che l’inquisitore racconta a Rodrigues. Il silenzio della divinità è sempre silenzio dell’uomo, e solo quando questo sa rinunciare al proprio egoismo (Rodrigues parte per il Giappone già consapevole di andare verso un martirio, e assume per sé la figura di Cristo, quasi ne fosse una reincarnazione) può iniziare davvero a comprendere il peso del simbolo, e della fede.
Calpestare un’immagine sacra non diventa altro che un gesto, sotto questo punto di vista. Un gesto, e nulla più. In questa riflessione sul credo e sulle sue molteplici sfaccettature, un valore determinate dovrebbe acquistarlo il linguaggio, ancor più determinante in un contesto in cui le parti in causa dovrebbero avere evidenti difficoltà di comunicazione – il giapponese non era lingua conosciuta nemmeno tra gli eruditi, all’epoca. Qui Silence mostra una delle sue falle più grandi: a fronte di un rigore ascetico mostrato nei confronti dell’immagine, quasi che essa stessa possa dimostrarsi sacrale (il panorama non è comunque quello giapponese, visto che il film è stato prodotto a Taiwan, probabilmente per una ragione di costi maggiormente sostenibili), Scorsese sembra assai poco attento all’importanza del “verbo”. Non solo tutti i personaggi portoghesi e italiani del film parlano tra loro in un inglese dal forte accento americano – con il consueto effetto straniante quando devono esprimersi in latino, per officiare, benedire e confessare – , ma anche gli stessi giapponesi si esprimono quasi tutti nella lingua di Hollywood. Una scelta che per di più rende abbastanza inesplicabile il personaggio interpretato da Tadanobu Asano, che dovrebbe essere un interprete – ma Issei Ogata, che veste il ruolo dell’inquisitore, si rivolge a Rodrigues in un inglese ben più che scolastico. L’impressione è che se si vuole davvero apparire rigorosi, per portare a termine un progetto che si sente particolarmente vicino (Scorsese iniziò a lavorarvi, a quanto afferma, a ridosso della post-produzione de L’ultima tentazione di Cristo, quasi trenta anni fa), lo si deve essere fino in fondo. Ancor più in un contesto che, è doveroso ribadirlo, vede il dialogo come base portante del discorso.

Lontano dai caratteri ossessivi che hanno segnato la parte più consistente (e considerevole) della sua carriera, Scorsese non sempre riesce a maneggiare con la doverosa cura una materia comunque affascinante, giustamente problematizzata e non trattata con una faciloneria che altrove sarebbe stata rischiosamente in procinto di ergersi da ogni inquadratura. Nella parte finale, quando Rodrigues è finalmente stato in grado di comprendere l’altro, e di confrontarsi con un mondo che dava per scontato – perché costretto a vivere nella non-verità – Silence eleva di nuovo lo sguardo e si apre una volta di più. È nell’incertezza la forza di questo racconto, nello sguardo di dolore che non trascende mai l’umano; in quel nitore strapotente delle immagini a volte l’incertezza viene meno, lasciando il posto a una verità imposta. Poi, a tratti, sopraggiunge l’abiura. Per fortuna.

Note
1. Per accezione comune il Periodo Edo viene fatto iniziare nel 1603, quando Ieyasu Tokugawa assume effettivamente la carica di shōgun, spostando il bakufu, vale a dire il governo militare, nella città di Edo. In questo modo il carattere imperiale dominante verrà meno, dando vita a quasi tre secoli di shogunato, destinati a terminare con la cosiddetta Restaurazione Meiji nel 1868.
2. La rivolta di Shimabara, Shimabara no ran, vide una parte consistente della popolazione contadina insorgere contro lo shogunato per le leggi anti-cristiane; seguì il già citato inasprimento dell’azione contro la dottrina cristiana, fino alla promulgazione del sakoku.
3. Tutta la filmografia di Tsukamoto, da Tetsuo a Kotoko, passando per Bullet Ballet, A Snake of June e Haze, ruota attorno a questo concetto.
Info
Il trailer di Silence.
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