Il processo ai Chicago 7

Il processo ai Chicago 7

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Seconda regia per il drammaturgo e sceneggiatore Aaron Sorkin, Il processo ai Chicago 7 nasce come progetto della Paramount Pictures ma approda in sala via Netflix, con distribuzione limitata e in lingua originale. Cast prestigioso per un appassionato courtroom drama storico, classico e animato da indignazione civile, che tuttavia sconta una messinscena non particolarmente ispirata. Comunque da vedere.

Silenzio in aula (anche quando si parla)

1968. Ai prodromi dell’era Nixon come Presidente degli Stati Uniti d’America, vari movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam organizzano una manifestazione pacifica durante la convention del Partito Democratico a Chicago. La contestazione sfocia in una serie di scontri tra manifestanti e Guardia Nazionale, a seguito dei quali si apre un processo per cospirazione contro otto partecipanti alla protesta, tra i quali alcuni leader di spicco dei movimenti. Il processo è segnato da uno sfacciato pregiudizio politico, e i due avvocati difensori incontrano insormontabili difficoltà nel tentativo di ottenere un equo procedimento giudiziario… [sinossi]

Drammaturgo, poi finissimo sceneggiatore per il cinema, ormai da un trentennio Aaron Sorkin evoca nei suoi testi destinati poi al racconto in audioimmagini rovelli etici che spesso costeggiano (o sprofondano in) ambientazioni giudiziarie e/o assumono il passo di tragedie moderne rilette alla luce del mito immortale del teterrimo Sogno Americano – esemplare in tal senso è lo script fornito da Sorkin per The Social Network (David Fincher, 2010) premiato con l’Oscar. La firma di Sorkin è ormai una delle più apprezzate oltreoceano, tanto da indurlo a tentare anche la strada della regia, con l’esordio controverso di Molly’s Game (2017) e adesso con questa opera seconda, Il processo ai Chicago 7, progetto nato sotto l’egida della Paramount Pictures per poi essere ceduto causa pandemia a Netflix, che adesso lo porta nelle sale italiane con una consueta distribuzione limitata e in lingua originale prima dell’esordio su piattaforma previsto per il 16 ottobre.

In realtà il progetto del film risale addirittura al 2007 (già allora la sceneggiatura fu opera di Sorkin) e negli anni è stato al centro di un fitto passar di mano – inizialmente il film doveva essere diretto da Steven Spielberg. È abbastanza comprensibile che tale progetto abbia suscitato un vivo interesse nel corso degli anni; trattasi infatti della rievocazione di una vicenda che molto fece discutere all’epoca dei fatti, quando nel ribollente 1968 sette (anzi otto) attivisti americani di primo piano nella contestazione della guerra in Vietnam finirono davanti a un tribunale con l’accusa di cospirazione a seguito degli scontri avvenuti a Chicago tra manifestanti e Guardia Nazionale durante la convention del Partito Democratico. Già ispiratrice di una messe di rielaborazioni in ambito di cinema e teatro (è da citare almeno Vladimir et Rosa, realizzato dal Gruppo Dziga Vertov di Godard e Gorin nel 1970), la vicenda si colloca in un passaggio delicatissimo della storia americana, a cavallo dell’elezione di Richard Nixon a Presidente degli Stati Uniti e della riconferma dei contingenti armati in Vietnam. Le accuse contro i sette di Chicago (tra gli imputati figurò anche Bobby Seale, leader dei Black Panthers) assunsero in breve tempo i tratti di un iniquo processo politico, in cui la gestione del dibattito giudiziario risultò fortemente caratterizzata da un’evidente tendenziosità, segnando probabilmente uno dei più tetri episodi antidemocratici degli Stati Uniti in età contemporanea.

Tranne qualche rapida (e non sempre felicissima) uscita verso l’esterno, Aaron Sorkin sceglie di chiudersi pressoché totalmente tra le quattro pareti degli spazi tribunalizi, dando netta preponderanza alle lunghe schermaglie processuali in aula. Già ben avvezzo a confrontarsi con drammi dai risvolti secondariamente giudiziari, stavolta lo sceneggiatore-regista americano sembra rifarsi piuttosto al suo lontano dramma teatrale «A Few Good Men», claustrofobicamente chiuso dentro le stanze di un tribunale e portato poi al cinema da Rob Reiner con il molto apprezzato (e discretamente sopravvalutato) Codice d’onore (1992), che con Il processo ai Chicago 7 condivide l’impianto all-star, sebbene rispetto al film di Reiner qui Sorkin dimostri di saper tenere a briglia più corta il suo parco d’attori, ispirati e affiatati ma piuttosto lontani da scoperte gigionerie. Resta il fatto che la produzione è quella delle grandi occasioni, capace di assemblare in un unico film ben due premi Oscar più o meno recenti (Eddie Redmayne e Mark Rylance) e uno stuolo di altri volti prestigiosi, da Joseph Gordon-Levitt a Sacha Baron Cohen, a un Frank Langella in grandissimo spolvero nei panni del giudice carognone, fino alla preziosa apparizione di un sempre eccellente Michael Keaton. Drammaturgicamente Sorkin sceglie un’orizzontalità narrativa pressoché totale, dispiegata secondo un lungo percorso fatto di verbosi confronti fuori e dentro l’aula giudiziaria e di diatribe etico-politiche tra le varie facce della contestazione evocate tramite i suoi protagonisti sotto accusa – si spazia dagli hippies a pettinatissimi rappresentanti dei Giovani Democratici. Dalla voce dei testimoni in tribunale si aprono talvolta flashback sui fatti di Chicago, narrati tramite frammenti scomposti in cui si moltiplicano i punti di vista e si rompe la linearità temporale. In un paio d’occasioni Sorkin ricorre poi a un montaggio alternato sul quale si articolano tre livelli di racconto, soluzione narrativa che tuttavia risulta spesso pretestuosa e scarsamente motivata. Al centro, prevalente su tutto il resto, si innalza comunque la rievocazione puntigliosa (quasi pedante nei suoi vezzi verbosi) di un caso di “ingiusta giustizia”, capace di scardinare in un sol colpo i fondamenti democratici e liberali intorno ai quali si abbevera da sempre il mito americano.

Scopertamente polemico e politico nell’affrontare un tale caso di manifesta illiberalità, si direbbe che Il processo ai Chicago 7 lo è molto meno nella forma scelta da Sorkin per dare corpo al suo film. Se è vero che nell’attuale cinema americano la classicità è ormai relegata quasi a livello di oggetto d’antiquariato e che di conseguenza la sua riesumazione potrebbe costituire a suo modo scelta politica, d’altro canto la classicità rimessa in scena da Sorkin rischia di confondersi con una fraintesa piattezza stilistica scarsamente ispirata, dove l’attore, benché inserito in un’impalcatura corale che tende a dare maggior risalto a una sorta di protagonista collettivo piuttosto che individuale, conquista comunque netta preminenza in un tripudio di primi piani o mezze figure del tutto funzionali a lunghi monologhi o scambi di dialogo autocompiaciuti e fin troppo compresi di sé. Sorkin cerca letture moderne alla classicità tentando di frastagliare le scelte stilistiche, ma si tratta spesso di zeppe non felicissime, e il film sembra arrancare ogni volta che esce fuori dai suoi cupi interni – particolarmente inefficaci risultano ad esempio i flashback dedicati agli scontri tra manifestanti e Guardia Nazionale.

Manca poi, e soprattutto, quel che ha reso particolarmente affascinanti e appassionanti i film migliori ispirati a script di Sorkin, quello sbriciolarsi della verità sotto i colpi di una tragedia etica che così intensamente era riuscito a narrare David Fincher in The Social Network. La problematicità degli script di Sorkin è qui ripercorsa in un tiepido tentativo di frantumazione della verità perseguito tramite le ricostruzioni in flashback, che però stavolta sembrano piegare più verso la convenzione che verso un’effettiva ambiguità di racconto. Non rientra del resto tra gli intenti del film; resta più pressante la necessità di denuncia storica e polemica politica, veicolata da un ricorso costante (e sapientemente centellinato) alla scena madre, affidata di volta in volta ai singoli, ottimi attori chiamati a convegno. Né giova il ritratto un po’ di maniera e convenzione che viene restituito da Sorkin riguardo agli ambienti contestatari, dove in ultima analisi emerge sottotraccia una decisiva simpatia per la versione istituzionale della contestazione rappresentata dal Tom Hayden di Eddie Redmayne. Sia chiaro, nell’ordine di uno spettacolo sorretto a un variegato divismo e motivato da un risentito afflato di denuncia civile, Il processo ai Chicago 7 funziona piuttosto bene. C’è l’imbarazzo della scelta tra i momenti forti proposti, dall’imbavagliamento in aula di Bobby Seale ai gesti di stizza di un impotente avvocato difensore (ottima la prova di Mark Rylance), al continuo botta e risposta di “Vostro Onore!” e le puntuali minacce di incriminazione per oltraggio alla corte, fino al brano nobilmente emozionante riservato all’apparizione di Michael Keaton. Stavolta Sorkin non riflette insomma sull’imprendibilità del vero, ma sposta tale tratto verso una riflessione sulla manipolazione del reale affinché paradossalmente possa affermarsi la verità in aula, che tanta fatica incontra a emergere poiché spinta lontana dal pregiudizio, dalla tendenziosità e dalla necessità politica di sancire un verdetto già deciso prima del processo.

In sostanza, Il processo ai Chicago 7 ci consegna un Sorkin meno ambiguo e profondo, e più superficiale. Lo dimostra anche il finale, impropriamente trionfante e pure un po’ banalizzante – probabilmente il film è fedele ai fatti anche nello scioglimento, ma nel cinema la differenza la fanno la potenza e credibilità di messinscena, non la verità dei fatti di per sé. Resta comunque un film da vedere. Si presta anzi a una sorta di riconciliazione post-covid con il cinema, la riscoperta di un cinema classico ed epidermicamente appassionante che possa riportare il pubblico in sala tramite una nobile riproposizione del già noto. Peccato che, stanti le politiche distributive di Netflix, in sala ci resterà molto poco.

Info
Il trailer de Il processo ai Chicago 7.

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