L’uomo che vendette la sua pelle

L’uomo che vendette la sua pelle

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Vagamente ispirato alla vicenda dello svizzero Tim Steiner, trasformato nel 2006 in opera d’arte vivente dal belga Wim Delvoye, L’uomo che vendette la sua pelle di Kaouther Ben Hania propone una riflessione sull’atteggiamento cannibalico dell’Occidente nei confronti dell’emisfero povero del mondo, passando attraverso un apologo sulle derive dell’arte contemporanea. Nel cast cosmopolita, anche Monica Bellucci in versione bionda. In sala.

Prendersi un dito, e poi tutta la schiena

Dopo aver subito un ingiusto arresto in terra patria, il siriano Sam Ali trova il modo di seguire l’amata Abeer in Europa grazie all’incontro con l’artista americano Jeffrey Godefroy. L’artista sceglie infatti la schiena di Sam come tela per una sua nuova opera, un tatuaggio raffigurante un visto Schengen. Profumatamente pagato per la cessione della sua pelle, Sam acquisisce così la libertà di movimento in Europa e tenta di raggiungere Abeer, che nel frattempo si è sposata con un ambasciatore. A poco a poco la vita di Sam si trasforma in una prigione dorata, frutto di un contratto capestro che prevede di organizzare aste milionarie finalizzate a vendere l’opera d’arte vivente… [sinossi]

Nel 2006 l’artista belga Wim Delvoye eseguì un’opera d’arte sul corpo dello svizzero Tim Steiner tramite l’apposizione di un tatuaggio sulla sua schiena. L’opera fu venduta a un collezionista per più di centomila euro, e secondo contratto, alla morte di Tim Steiner, la pelle sarà asportata dal corpo e messa in cornice. La vicenda ha ispirato molto alla lontana il nuovo film dell’autrice tunisina Kaouther Ben Hania, L’uomo che vendette la sua pelle, presentata in Orizzonti alla Mostra di Venezia 2020, dove ha raccolto il premio al miglior attore relativo alla sezione collaterale del festival per il protagonista Yahya Mahayni. Il film è il frutto di un diffuso spirito apolide e cosmopolita; ampia coproduzione europeo-tunisina, con decisiva componente belga, per una riflessione che prende le mosse dalla Siria (passando poi dal Libano) per affidarsi alle mani di un’autrice nordafricana. Protagonisti di varie nazionalità; il belga Koen De Bouw impersona un artista americano, mentre per noi italiani spicca il volto di Monica Bellucci. Dopo la buona accoglienza veneziana, il film è entrato anche nella cinquina degli Oscar 2021 al miglior film internazionale, prima volta nella storia per un lungometraggio di bandiera primariamente tunisina.

Rapidamente apparentato a The Square (Ruben Östlund, 2017), L’uomo che vendette la sua pelle sembra condividerne in realtà solo l’ambientazione antropica e lo spirito mordace nei confronti dell’arte contemporanea, con gradi differenti di aggressività dissacrante. Certo vi è anche una condivisa freddezza nei confronti della materia narrata, ma con intenti piuttosto diversificati. Animato da uno spirito corrosivo (e moralistico) da moderno cinema nordeuropeo, The Square è sostanzialmente una commedia che resta chiusa nell’ambiente elitario evocato. L’uomo che vendette la sua pelle si pone altri obiettivi. Conserva tratti di gelida commedia, ma apre la propria riflessione a venature scopertamente sociali e volenterosamente politiche; mondo povero e mondo ricco, ipocrisia e sfruttamento, la prigionia dell’individuo preso in mezzo. In tal senso, dell’arte contemporanea Kaouther Ben Hania sceglie di narrare il lato divorante e parassitario, volutamente e orgogliosamente tale fin dalle esternazioni degli artisti stessi. Fin dai tempi di Marcel Duchamp, scendendo lungo i decenni verso l’attualità, l’arte si è trasformata spesso in oggetto cinico, proiettato al riuso. Stavolta però l’objet trouvé è il corpo vivo di un essere umano. Nulla di nuovo, sia chiaro. La Body Art e/o Performance Art risale almeno alla fine degli anni Cinquanta, e il corpo del siriano Sam, protagonista del film, è solo uno dei tanti che hanno punteggiato l’evoluzione dell’arte occidentale. Il fittizio artista americano Jeffrey Godefroy compie con consapevolezza un esproprio nei confronti di Sam, e quella sua stessa consapevolezza costituisce la sostanza del gesto artistico. Intanto però questo modo cinico e cerebrale di fare arte viene battuto in aste milionarie, e il corpo di Sam si tramuta in oggetto praticamente inanimato.

Con atto ancor più scaltro Jeffrey Godefroy incrocia il gesto artistico a istanze palesemente politiche. Sam è infatti un rifugiato siriano, e quel che porta tatuato sulla schiena non è altro che un visto Schengen. Il discorso di L’uomo che vendette la sua pelle, alla fine, è piuttosto facile e trasparente. Muovendosi lungo un’allegoria di immediata leggibilità, Kaouther Ben Hania sottolinea fin quasi al didascalico la riduzione di un essere umano a corpo letteralmente estraneo (straniero, extracomunitario, rifugiato), sfruttato e spogliato della sua storia e identità. Il racconto si annoda intorno a un conclamato paradosso; per dare a Sam libertà di movimento in Europa, di fatto l’artista Jeffrey lo priva della libertà stessa imprigionandolo nella sua nuova identità di scultura vivente. La merce viaggia nel mondo molto più liberamente degli esseri umani; per dare libertà all’uomo si deve trasformarlo in merce. Provocazione cerebrale e intelligentissima come piace alla nuova idea d’arte emersa nell’ultimo sessantennio occidentale. Alterità trasformata in oggetto di mercato: nient’altro che la falsa coscienza dell’Occidente palesata tramite un apparente atto di empatica denuncia. In questa direzione il film trova la sua efficacissima climax nella simulazione di un attentato messa in atto da Sam durante una delle sue esibizioni. Basta fingere di lanciare una mina, e la platea fugge in preda al panico. In un attimo cade tutto il castello d’ipocrisia dell’Occidente che si preoccupa del resto del mondo, apparentemente incurante di pregiudizi e differenze. Con un solo gesto infinitesimale ma profondamente iconico, Sam dismette i panni dell’opera d’arte e agli occhi della platea ben pettinata torna a essere lo straniero minaccioso.

Kaouther Ben Hania sceglie il racconto senza sviluppo drammatico. Da circa metà in poi il film propone infatti una situazione statica, di volta in volta reiterata e variata secondo una struttura a spirale, il racconto di una condizione esistenziale sempre uguale a se stessa ma via via sempre più degradata. Sorta di Pinocchio moderno, Sam non è particolarmente bugiardo ma la sua pelle viene letteralmente battuta all’asta, un po’ come succedeva al burattino di legno trasformato in asino. Sfruttamento dell’Occidente e passività dell’emisfero povero del mondo: usando l’arte contemporanea come grimaldello, il discorso di Kaouther Ben Hania è vistosamente dichiarato, e a conti fatti anche meno profondo di quanto appaia. Ciò detto, va anche riconosciuto che la confezione è particolarmente accattivante. L’uomo che vendette la sua pelle è infatti algido e manierato, caratterizzato da location lussuosamente moderne e da una messinscena in cui ritornano spesso motivi visivi legati al tema della prigionia (vedasi la figura di Sam incastonata di frequente in effetti di doppia cornice). Manierato, freddo e decadente, il film mostra i suoi lati più deboli nella struttura da consueto melodramma nel tratteggio del rapporto fra Sam e la sua amata Abeer – specie l’esordio in terra siriana mostra una stonata calligrafia visiva, ma conserva comunque una buona tensione narrativa, inseguendo il doloroso zig-zag esistenziale di una vittima sui generis dell’opulenza snobistica del lato ricco del mondo.

Sostanzialmente, L’uomo che vendette la sua pelle è anche la storia di un paradosso che trova una scappatoia finale all’insegna dell’individualismo. Oltre al legittimo desiderio di liberarsi dallo status di opera d’arte, Sam aspira di fatto a un’esistenza ritirata e appartata anche rispetto al complicato destino del suo Paese – «C’è poco da stupirsi, ogni sei mesi succede qualcosa», è più o meno il sunto della posizione di Sam. Desiderio tutto occidentale, in fondo, di trovare un angolo nascosto dove vivere felicemente con l’amata Abeer. Niente di male; semplicemente, da questa idea generale la portata politica di L’uomo che vendette la sua pelle esce piuttosto ridimensionata, e la storia di Sam sembra rinchiudersi nei limiti del caso bizzarro utilizzato come spunto per riflessioni intelligenti. Il film di Kaouther Ben Hania resta comunque molto godibile ed è sorretto da alcune buone prove d’attore, dall’intenso protagonista Yahya Mahayni al belga Koen De Bouw. A una platinata e azzeccata Monica Bellucci, manager d’arte dal passo virago e dal perfetto inglese – restiamo convinti che la Bellucci funzioni assai meglio in versione alloglotta. Film perfetto per divertirsi con il gusto del bizzarro, e per sentirsi ripetere cose già un po’ risapute. Repetita iuvant, in ogni caso.

Info
L’uomo che vendetta la sua pelle, il trailer.

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