Hope

Dramma d’amore, famiglia e malattia, il norvegese Hope di Maria Sødahl arriva nelle nostre sale con un ritardo di tre anni, tentando una consueta disamina crudele di un rapporto di coppia minato da un’incombente tragedia. Derivato da una vicenda autobiografica, di fatto è una summa di convenzioni sui generis di marca nordeuropea, dagli esiti banali e superficiali malgrado le alte intenzioni.

Dal buio alla luce

Poco prima delle festività natalizie e appena reduce dall’allestimento di uno spettacolo di danza che ha riscosso grande successo, la regista Anja scopre che un tumore ai polmoni precedentemente rimesso si è tramutato in metastasi al cervello. Terrorizzata e affidata a pesanti cure mediche, Anja condivide l’angoscia con il compagno Tomas, a sua volta regista teatrale, nell’attesa di potersi sottoporre a un intervento urgente che solo in rari casi è stato risolutivo. La coppia ha sei figli di varia età, in parte avuti da Tomas in una precedente relazione. La settimana di Natale trascorre fra riti familiari e ansie insopprimibili, mentre inevitabilmente il rapporto tra Anja e Tomas va incontro a una crudele resa dei conti… [sinossi]

La malattia è un’esperienza liminare. Lo è ovviamente nei casi più gravi, nella scoperta più conclamata della propria fragilità, fisica e psicologica. La malattia interrompe. Non necessariamente la vita stricto sensu, ma sicuramente interrompe un’idea della vita, uno stile di vivere, una routine assodata e magari soddisfacente. Intervengono brutalmente la paura, l’incertezza, il terrore di abbandonare i propri cari e di esserne abbandonati. Il sentimento della fine è fortemente rimosso da chi vive pienamente la propria esistenza. È l’unico modo, in fondo, per poter vivere serenamente. Rimandare quanto più possibile il momento di confrontarsi con l’idea della fine, che presto o tardi riguarda tutti. Una volta che essa però irrompe violentemente in noi, si apre un percorso di indicibile travaglio dove soltanto la speranza, se ve n’è un margine, può dare ancora un senso ai giorni che ci restano, tanti o pochi che siano. È il titolo del film, Hope, a dare un forte segnale di lettura in questa direzione. Il film della norvegese Maria Sødahl non si delinea infatti come un rigido calvario funebre, bensì come una sorta di movimento, certo impervio e irto di difficoltà, verso una dimensione più luminosa, dove gli iniziali sconforto e rabbia lascino spazio a poco a poco alla possibilità di godere ancora della vita. È solo la speranza, del resto, che può ancora conferire un senso all’esistenza quando la malattia pone enormi veti sulla sua prosecuzione. Il film deriva direttamente dall’esperienza autobiografica della regista, vissuta insieme al compagno Hans Petter Moland, a sua volta autore cinematografico (In ordine di sparizione, 2014; Un uomo tranquillo, 2019), e alla protagonista Andrea Bræin Hovig affianca il glorioso Stellan Skarsgård. Malgrado i numerosi personaggi secondari, in particolare la folta figliolanza di varie età che contorna la coppia, di fatto Hope si focalizza totalmente sul rapporto tra i due, tentando una cruda radiografia di una relazione messa duramente alla prova dalla scoperta di un tumore al cervello che affligge la donna. Sottoposta a cure pesanti in vista di un rapido intervento alla testa che solo in rari casi può essere risolutivo, Anja si ritrova sbalzata repentinamente in un groviglio di emozioni. Mentre perde il sonno per la paura e per la terapia di Medrol, la donna affronta anche, inevitabilmente, tutto il vissuto e non-vissuto che hanno caratterizzato i suoi anni al fianco di Tomas. Il suo profilo si fa rapidamente mutevole e pure crudele, almeno fino a quando non riesce a trovare qualche nuovo sorriso nelle risorse della speranza che la scienza medica sembra riservarle.

Sul piano stilistico Hope mostra un apparato espressivo più che collaudato alle alte latitudini del cinema nordeuropeo degli ultimi vent’anni. Affidandosi in buona parte alle risorse drammatiche (e pure sensazionalistiche) della macchina a mano tremolante di dogmatica memoria, Maria Sødahl s’inerpica in un consueto pedinamento dei suoi protagonisti registrandone dubbi e tremiti, lievi gioie e profonde cicatrici. A livello socio-antropologico è piuttosto riconoscibile anche il frequente interesse per una borghesia benestante e culturalmente elevata, ricorrente leit-motiv del cinema nordeuropeo, della quale si riferisce anche il profondo attaccamento a riti e cerimonie. Ulteriore giro di vite sul dramma (ancorché probabilmente derivante dalla realtà della vicenda autobiografica) è infatti il collocamento del racconto nella settimana di Natale, tra le antivigilie e i primi giorni dell’anno nuovo. Il Natale di Anja e Tomas è ovviamente segnato dal travaglio, presi in mezzo tra il desiderio di non guastare le imminenti festività e la necessità di comunicare ai numerosi figli la tragedia che incombe sulla loro famiglia. A differenza di opere più clamorosamente aggressive nei confronti dei riti borghesi (basti pensare al lontano Festen di Tomas Vinterberg, 1998), Maria Sødahl sceglie una via sobria e distaccata, sommessamente lacrimosa, dando conto di un folto nucleo familiare che celebra i propri riti con ossequioso rispetto, a cominciare dall’eleganza degli abbigliamenti fino ai piacevoli giochi di gruppo. A conti fatti Hope restituisce l’immagine di un pacato e malinconico affetto per la cerimonia collettiva, ricomprendendola nella globale riscoperta della vita che Anja affronta proprio quando rischia di congedarsi per sempre da tutti. Ne è ulteriore prova la messa in scena del matrimonio in prefinale, al quale si arriva, dopo vari ripensamenti, per suggellare l’unione tra Anja e Tomas prima che la donna affronti l’intervento chirurgico.

In tal senso Hope sembra anche allinearsi a una riscoperta della famiglia, dei piccoli valori tradizionali della vita, fors’anche della fede, come prodotto parallelo dell’insorgere della speranza. Più in generale, il film di Maria Sødahl finisce per assumere i tratti di un dramma volutamente enfatico che finge soltanto di tenersi a briglia corta. È anche più superficiale di quanto vorrebbe. Le recriminazioni tra Anja e Tomas sono le più facili e prevedibili, e pure la crudeltà programmatica di alcuni accessi di rabbia della donna lascia un po’ il tempo che prova. Più volte si ha l’impressione infatti che Maria Sødahl voglia dare voce a quanto nessuno avrebbe mai il coraggio di ammettere – madre di tre figli generati con Tomas e madre putativa di altri tre figli avuti dall’uomo in una relazione precedente, Anja caccia fuori ad esempio la scomoda verità di aver amato veramente soltanto la propria prole effettiva. Si tratta in realtà di sprazzi narrativi poco coesi con il resto, che sembrano cercare l’effetto sensazionalistico fine a se stesso, fino alla successiva svolta emotiva del tutto dissonante. Se Dogma 95 fuori tempo massimo ha da essere (in versione sbiadita, accademica e scolastica, invero), si direbbe che Hope ha più debiti con il cinema di Susanne Bier che con chiunque altro. Lontano da qualsiasi idea di sintesi, il film di Maria Sødahl accumula battute a effetto senza schivare mai le insidie della verbosità, delle psicologie didascalicamente messe a nudo, colte in turbamenti banali e raramente efficaci. Saggiamente, il percorso si chiude prima dell’esito chirurgico. L’esito non è importante. È importante il tragitto che si è solcato fino a quel momento, dal buio alla luce, dal terrore ai tenui sorrisi di un possibile futuro. Ma è un tragitto inutilmente lungo, eccessivamente paludato, pesantemente ridondante, privo di ombre, sottintesi e, in ultima analisi, privo di verità umana. Peccato.

Info
Il trailer di Hope.

  • hope-2019-maria-sodahl-02.jpg
  • hope-2019-maria-sodahl-01.jpg

Articoli correlati

Array
  • In sala

    un altro giro recensioneUn altro giro

    di Un altro giro in originale si intitola Druk, traducibile come ubriacarsi. Il tema del nuovo film di Thomas Vinterberg è dopotutto quello, ragionare sulla gestione dell'alcool nella società occidentale: peccato che il regista non sappia uscire dalla gabbia (contenutistica e morale) in cui si rintana da decenni.
  • Cannes 2018

    The House That Jack Built RecensioneLa casa di Jack

    di La casa di Jack era il film-scandalo di Cannes già al momento del suo annuncio in selezione; lo era per il tema che affronta, lo era per il ritorno di Lars Von Trier sul "luogo del delitto" a sette anni di distanza da Melancholia. Colto, arguto, crudele, spietato e in grado una volta di più di scandagliare l'animo umano.
  • In Sala

    Second Chance

    di La Bier non ci risparmia quasi nulla, dalle mancate ellissi sulla sofferenza dei neonati alla beffarda e crudele circolarità narrativa. E i personaggi di Second Chance, come cavie da laboratorio, corrono inutilmente lungo i corridoi di questa parabola moraleggiante forzata nei toni e nella scrittura...
  • Archivio

    Una folle passione

    di Nulla sembra funzionare nel melodrammatico Una folle passione, dalla regia della Bier alla scrittura di Christopher Kyle, fino all'imprevedibile débâcle della coppia d'oro Jennifer Lawrence & Bradley Cooper.
  • Archivio

    Il sospetto RecensioneIl sospetto

    di Nonostante l'ottima interpretazione di Mads Mikkelsen, Il sospetto non riesce a evitare le trappole del cinema di Thomas Vinterberg, furbo e ricattatorio.
  • Archivio

    In un mondo migliore

    di Il dottor Anton, che opera in un campo profughi in Sudan, torna a casa nella monotona tranquillità di una cittadina della provincia danese. Qui si incrociano le vite di due famiglie e sboccia una straordinaria e rischiosa amicizia tra i giovani Elias e Christian...