La doppia vita di Madeleine Collins

La doppia vita di Madeleine Collins

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Con La doppia vita di Madeleine Collins il cinquantenne regista francese Antoine Barraud firma un’indagine psicologica in odor d’Hitchcock, in un thriller che si dipana alla ricerca della verità, che è anche ricerca di un senso della (propria) vita. Splendida protagonista è Virginie Efira. Alle Giornate degli Autori 2021 e ora in sala.

Un’anima divisa in due

Judith conduce un’intensa doppia vita tra la Svizzera e la Francia. Da una parte c’è Abdel e una bambina, dall’altra Melvil e due figli più grandi. A poco a poco, questo delicato equilibrio costruito su bugie, segreti e un costante andirivieni, si sfalda con l’incalzare degli eventi. Presa in trappola, Judith prova a scappare da tutti, ma la situazione presto le sfugge di mano. [sinossi]

Una donna si reca in un negozio d’abbigliamento e chiede di provare un paio di abiti alla commessa: quando le vengono recapitati in camerino lei ha perso i sensi ed è caduta a terra, sbattendo la testa. Decide dunque di allontanarsi dal negozio e tornare a casa, e quando è oramai fuori campo si ode un urlo disperato. Inizia così, con un piano sequenza avvolgente e già carico di tensione, La doppia vita di Madeleine Collins, il nuovo film di Antoine Barraud che Movies Inspired porta in sala dopo la presentazione in anteprima mondiale lo scorso settembre alla Mostra del Cinema di Venezia, dov’era stato selezionato all’interno del programma della sezione autonoma e parallela Giornate degli Autori. Barraud, che torna alla regia a sette anni di distanza da Le dos rouge e a nove dall’esordio al lungometraggio Les Gouffres, pone subito al centro del discorso il valore che avrà, nello svolgimento di questo dramma psicologico tinteggiato di thriller, ciò che non è (o non è più) visibile. Lo spettatore non vede ciò che accade alla donna della prima sequenza, ed esattamente allo stesso modo resta all’oscuro di tutto quel che avviene fuori dal campo dello sguardo, come se al di là del quadro cinematografico si agitassero le ombre che attanagliano la mente della protagonista, incarnata da una splendida Virginie Efira che continua a testimoniare la ferrea volontà di costruirsi una carriera distante dalle direttrici più consone e abituali. Dopo aver interpretato la suora Benedetta Carlini per Paul Verhoeven (attrice consumata o vera “santa”?), Efira torna a portare in scena un ruolo duplice: è infatti la traduttrice Judith Fauvet, che vive dal lunedì al venerdì in Svizzera insieme ad Abdel Soriano e alla piccola Ninon, che soffre il distacco dalla donna ogni volta che parte per il weekend, quando raggiunge il marito Melvil, direttore d’orchestra, e i suoi due figli adolescenti, Joris e Victor, nella loro casa in Francia.

Una vita sdoppiata, dunque, che lascia ben più di un quesito per lo spettatore: quanto sono consapevoli gli altri attori della vicenda di ciò che sta succedendo? E perché Judith ogni tanto utilizza un documento d’identità falso intestato a tal Margot Soriano? Chi è davvero Judith, e qual è la verità? Eccola la verità, il tema portante del film e forse del cinema in quanto tale: ma, ribaltando qualsiasi prospettiva canonica del thriller, Barraud disegna su Efira un personaggio che mente senza mai dire falsità. Per quanto ciò possa apparire come un controsenso, Judith vive la sua vita doppia – e forse tripla, quadrupla, quintupla – con un’assoluta aderenza al vero. Acquista un elegante ribaltina d’epoca per l’appartamento di Abdel, ed è una madre amorosa per Ninon; è in platea ai concerti di Melvil, ama Victor e Joris, va anche a vedere l’appartamento che il marito vorrebbe acquistare perché il vecchio gli è venuto a noia. Sul lavoro poi è insostituibile, apprezzata e determinante nei rapporti con i giordani con cui il suo capo vorrebbe chiudere un accordo economico assai vantaggioso. Barraud evidenzia in ogni passaggio questa premura che anima qualsiasi azione di Judith, anche quando si trova di fronte a situazioni a dir poco imbarazzanti – Abdel, stanco della situazione di instabilità in cui si trova, inizia a frequentare un’altra donna e la porta a casa la notte nonostante la presenza nell’appartamento di Judith – ma in ogni inquadratura continua a far percepire l’ombra che avanza dal fuori campo, quello spazio invisibile dove si sta in realtà sviluppando un’altra storia, dai contorni se possibile ancora più foschi e imprevedibili.

In questo modo il thriller si sviluppa in modo quasi naturale, senza che gli eventi narrati debbano in alcun modo aderire al genere o alle sue più o meno cardinali regole. Barraud prende il personaggio di Judith e lo fa progressivamente sprofondare, costringendolo a confrontarsi con la quotidianità che pretende sempre e solo coerenza, e soprattutto è abituata a vedere nell’umano un’unicità che mal si confà alla doppia vita della donna, e alla doppia anima che la spinge in avanti. Per quanto non manchino evidentemente dei tratti hitchcockiani, ben punteggiati dall’ottima regia di Barraud, La doppia vita di Madeleine Collins – il titolo italiano forse allude fin troppo, strizzando l’occhio allo spettatore, mentre l’originale si “accontentava” di Madeleine Collins, più laconico ma non meno spiazzante, visto che non sembra esistere nessun personaggio con quel nome all’interno del film –, si è davanti quasi a un suo totale ribaltamento: non è il doppio a interessare Barraud, ma semmai l’impossibilità dell’essere umano a identificarsi in una sola vita, in un’unica prospettiva. Per questo lo spettatore, dovendo conoscere Judith, non può che essere spinto verso l’incognito, ciò che non è facilmente decrittabile. Se l’immagine non può che apparire oggettiva è necessario che il cinema indaghi la crisi dei personaggi, il loro punto di non coincidenza tra forma e atto: ne viene fuori un dramma sulla disperata dissoluzione della vita borghese che è sempre più deragliante, fino a conseguenze forse estreme. Barraud si dimostra una volta ancora regista prezioso, interessato a conoscere corpi e anime dei suoi personaggi, e in grado di orchestrare un cast ricco e stratificato: dalle zone d’ombra del film fuoriescono schegge di personaggi formidabili, dal Kurt magnetico, lurido e criminale di Nadav Lapid – disperato ancoraggio alle derive del romantico – alla riottosa verve giovanile di Joris (Thomas Gioria, qualcuno lo ricorderà nel bel L’affido di Xavier Legrand), fino al vero doppio in scena, quello di Madeleine/Valérie Donzelli, che è agli occhi dello spettatore la moglie del marito di Judith senza ovviamente mai esserlo stata. Segnali di un’instabilità del vivere che non può che condurre alla fuga, una fuga da sé prima che da chiunque altro, e che non ha confini, stati, orizzonti concreti. Un po’ come lo sguardo.

Info
La doppia vita di Madeleine Collins, il trailer.
La doppia vita di Madeleine Collins sul sito delle Giornate degli Autori.

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