Lynch/Oz

Lynch/Oz è il tentativo del documentarista svizzero Alexandre O. Philippe di analizzare l’influenza che Il mago di Oz di Victor Fleming ha avuto sia sul cinema di David Lynch che sull’immaginario statunitense nel suo complesso. Sei brevi crito-film – termine coniato da Adriano Aprà – affidati a critici e registi approfondiscono la questione: un lavoro bizzarro, non privo di interesse, che magari non aggiunge granché allo studio della filmografia del regista di Missoula ma indaga l’immagine, e il suo senso intimo e collettivo. Alla Festa di Roma nella sezione Freestyle.

There’s no place like home

Le tematiche, le immagini e l’impatto culturale del film Il mago di Oz, di Victor Fleming, continuano a perseguitare l’arte e la filmografia del regista David Lynch, dal suo primo cortometraggio, The Alphabet, alla sua ultima serie tv, Twin Peaks: Il Ritorno, dando vita a uno degli enigmi più affascinanti nella storia del cinema. Lynch è intrappolato nella terra di Oz? Le sue opere e Il mago di Oz possono illuminarsi reciprocamente di nuova luce? [sinossi]

In un’intervista rilasciata a Quinlan.it oltre sei anni fa Adriano Aprà utilizzava il neologismo “critofilm”, vale a dire «i film o i video che parlano di cinema», aggiungendo che a suo avviso «Uno dei problemi centrali della critica è che si è sempre servita di uno strumento non omologo all’oggetto del suo discorso e cioè la parola scritta, o anche orale. Per cui tu “alludi” a qualche cosa sperando che nel lettore ci sia la memoria di quel film, ma è un discorso allusivo e questo mi ha sempre dato fastidio. Per questo mi interessava Metz, perché mi consentiva di avere uno strumento di analisi della struttura, della costruzione di un film, che però era sempre affidato alla memoria. Era rara per esempio la possibilità di potersi studiare un film in moviola. Una delle poche occasioni in cui mi accadde fu proprio grazie a Rossellini che ci permise di analizzare alla moviola Viaggio in Italia. Mentre in anni più recenti, questa mia insoddisfazione a proposito dello scrivere di cinema “alludendo” a qualcosa d’altro mi ha portato a decidere di usare il cinema stesso come strumento critico». Lo stesso autore di quell’intervista, Alessandro Aniballi, quest’anno ha presentato ai festival – dapprima Bellaria, quindi il PerSo di Perugia – Una claustrocinefilia, opera estremamente personale, a tratti intima, che però non rinuncia all’occasione di utilizzare il cinema come strumento di analisi, e di critica. Parte da questo presupposto Lynch/Oz, che arriva a utilizzare nel titolo il segno grafico della barra obliqua (o slash) che fa parte della punteggiatura saggistica e analitica: un segno di divisione, ma anche di simmetria, il modo per distanziare e unire due parole che vedono dunque i rispettivi significati messi sullo stesso piatto della bilancia. Ed è interessante notare come uno dei due termini (“Lynch”) rimandi al cognome di una persona celebre, e vivente, l’altro (“Oz”) faccia riferimento a un personaggio doppiamente di fantasia, sia perché creato dalla mente di Lyman Frank Baum sia perché inesistente perfino all’interno dell’opera letteraria – non si pecca di spoiler nel ricordare come Oz, sulla carta un grande e potente mago, altro non sia che un comune mortale.

Un accostamento solo in apparenza peregrino, e sul quale in realtà si basa proprio il senso dell’operazione portata avanti da Alexandre O. Philippe, regista svizzero che i più ricorderanno per lo schizoide The People vs. George Lucas e per 78/52, in cui vari registi e cinefili venivano intervistati per parlare di Psyco di Alfred Hitchcock, ma in particolar modo della sequenza della doccia costruita con l’utilizzo di 78 inquadrature e facendo ricorso a 52 tagli di montaggio. Dai “tre minuti che sconvolsero il mondo del cinem” Philippe passa ora a un lavoro ancora più ambizioso: non tanto trovare i punti di contatto tra l’opera di David Lynch e Il mago di Oz nella versione cinematografica del 1939 firmata da Victor Fleming – operazione questa facilitata dall’evidenza di alcuni riferimenti, a partire com’è ovvio dall’intera struttura, e dalle citazioni di Cuore selvaggio –, quanto cercare di comprendere in quale misura l’immaginario di un intero popolo, per almeno un paio di generazioni, sia stato puntellato proprio dal viaggio di Dorothy nella tromba d’aria. Per raggiungere tale obiettivo Philippe tira di nuovo in causa critici e registi, ma stavolta non li intervista, ma li spinge a ragionare in modo saggistico su questo punto, e a elaborare il saggio ricorrendo non solo alla parola, ma all’immagine. Ecco dunque che Lynch/Oz diventa un critofilm in sei movimenti, ognuno dei quali affidato a uno studioso e/o regista (un dei segmenti è firmato a quattro mani, da Justin Benson e Aaron Moorhead, che d’altro canto dirigono anche insieme solitamente). Lo spettatore potrà quindi approfondire il concetto di vento, elemento naturale straniante che conduce in un’altra dimensione sia nel film di Fleming che in molti passaggi delle opere di Lynch, oppure potrà ragionare sul doppelgänger, centro nevralgico della poetica lynchiana che però è in effetti presente anche nel film del 1939, visto che Dorothy nel suo “viaggio” nel mondo di Oz si imbatte in figure che poi ritroverà accanto a sé al suo risveglio.

Philippe, che introduce e chiude il film fingendosi dapprima presentatore sul palco del Club Silencio di Mulholland Drive e quindi immaginandosi come testa fluttuante di Oz (un elemento che traccia anche il tenore giocoso dell’operazione), lascia totale libertà espressiva alle persone che coinvolge, e così l’unico elemento davvero solido è la struttura stessa, la suddivisione in capitoli. Per il resto ognuno dei convocati divaga, si perde in una propria ossessione, analizza un elemento spurio: da un punto di vista strettamente critico questo comporta una certa confusione, ma va detto che cinematograficamente il racconto regge, ed è plausibile pensare che gli spettatori occasionali possano essere sedotti da quel che viene loro mostrato, e dunque magari anche spinti ad avvicinarsi al cinema di Lynch, con troppa faciloneria definito “criptico” da una parte del mondo critico che in tutta onestà semplicemente non ha la voglia, o l’intelligenza, per poterlo comprendere. Così da un lato il pubblico avrà il quadro della situazione generale – vale a dire il ruolo del romanzo nell’immaginario collettivo della generazione di Lynch – descritto con una certa chiarezza dalla critica Amy Nicholson, e poi potrà perdersi nelle interessanti elucubrazioni di David Lowery e Karyn Kusama (il primo anche con una non celata verve polemica contro l’industria hollywoodiana – ma eterno amore per Steven Spielberg e il suo “senso della meraviglia”, la seconda alle prese con l’analisi del doppio e del suo senso in Mulholland Drive), ma soprattutto imbattersi nei minuti a disposizione di John Waters, grande amico di Lynch, suo coetaneo – entrambi del 1946, Lynch è di tre mesi più vecchio –, e a sua volta ossessionato dalla visione del capolavoro fantasy di Fleming, opera tra le più perturbanti della Hollywood classica. Sia chiaro, il lynchiano di ferro, il cultore della materia, non ha nulla di particolare da scoprire in questo Lynch/Oz, al di là forse di qualche dettaglio, ma avrà in ogni caso a sua volta la possibilità di immergersi ancora nell’immagine del cinema di questo gigante della settima arte, perché a partire da Eraserhead – La mente che cancella fino a Twin Peaks: The Return non c’è una sola opera che non sia passata al setaccio. In questo senso è quasi improprio l’utilizzo del termine “documentario”, perché Philippe non ha proprio alcunché da documentare, ma semmai da analizzare, studiare, approfondire. Per scoprire, chissà, che magari dietro il celeberrimo “Nessun posto è come casa”, su cui si è costruito in parte il mito de Il mago di Oz, possa celarsi anche una sottile propaganda reazionaria con cui ammansire il proletariato appena uscito dalla Grande Depressione.

Info
Il trailer di Lynch/Oz.

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