La persona peggiore del mondo

La persona peggiore del mondo

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Terzo episodio di una ideale trilogia di Oslo, in perfetto equilibrio fra prostrazione e speranza, La persona peggiore del mondo è innanzitutto il riuscito ritratto di una giovane donna piena di vita, ma anche indecisa e confusa, alla ricerca di se stessa, fra cambi di lavoro, di partner e corse per la città. Ma è anche un invito ad andare oltre le apparenze e il facile giudizio con cui spesso prendiamo le distanze dalle persone. O da noi stessi.

Film per adulti (non ancora cresciuti)

Julie studia medicina a Oslo, ma poi passa a psicologia e infine lascia tutto per fare fotografia. O forse per scrivere. Inizia una relazione con Aksel, un autore di fumetti di successo, di 15 anni più grande. Aksel vorrebbe mettere su famiglia, ma Julie non si sente ancora pronta. Mentre torna a casa dal party per il nuovo graphic novel di Aksel, Julie s’imbuca a un ricevimento di nozze e incontra Eivind, un barista, anche lui fidanzato. [sinossi]

Giunto al suo quinto film il regista e sceneggiatore norvegese Joachim Trier (nato però a Copenaghen) fa ritorno alla capitale del suo Paese in cui aveva ambientato i suoi primi due film, Reprise e Oslo, 31. August, per riprendere i fili del discorso e comporre un ideale terzo tassello di quella che è stata definita la “Trilogia di Oslo”. Vero è che anche il precedente Thelma era ambientato a Oslo, ma si trattava di un’incursione nel film di genere, una sorta di horror paranormale, sebbene con istanze autoriali. Se nei primi due capitoli i protagonisti erano uomini ne La persona peggiore del mondo, come in Thelma, il personaggio principale è una donna, Julie: a interpretarla Renate Reinsve (premiata con la Palma d’oro a Cannes), che proprio con Trier aveva esordito con un piccolo ruolo in Oslo, 31. August. E anche se poi a legare più marcatamente i tre film è l’onnipresente e ottimo Anders Danielsen Lie, qui nei panni del fumettista Aksel, è proprio il vitalismo di Julie a contrapporsi in maniera significativa alla fragilità dei personaggi maschili, che nei film di Trier sembrano spesso votati allo scacco. Tanto Julie quanto le due controparti maschili, Aksel e Eivind (Herbert Nordrum), sono il risultato di un lavoro di scavo e di ricerca da parte di regista e interpreti, allo scopo di portare alla luce la verità dei personaggi, cioè la loro unicità. Questo perché nel cinema di Trier – come perlopiù avviene nel cinema europeo d’autore – è dai personaggi che nascono le storie, e non il contrario.

Ora, per comprendere come mai un film che abbia come protagonista “la persona peggiore del mondo” abbia suscitato una tale adesione emotiva da parte del pubblico, bisogna partire dalla definizione che lo stesso Trier, in un’intervista, ha dato del suo film: “Un racconto di formazione di adulti non ancora cresciuti”. Nella stessa occasione ha anche messo in chiaro che non è suo interesse avere un approccio cinico e distaccato nei confronti dei personaggi. Il suo è uno sguardo empatico e pienamente aderente al loro percorso. Ecco perché Julie, che in prima battuta appare, seppur seducente, anche immatura e allegramente superficiale, finisce poi per coinvolgere più nel profondo, mettendo lo spettatore nella condizione di sospendere ogni giudizio nei suoi confronti. A poco a poco, nei capitoli di cui si compone il film – dodici, più un prologo e un epilogo – a emergere è la complessità di Julie, la sua incapacità di scegliere una direzione chiara, il suo intimo smarrimento. Ma anche la sua capacità di scegliere per se stessa, senza condizionamenti, senza seguire pedissequamente il percorso o aspirare ai ruoli che da lei ci si aspetta e che tutti sembrano seguire senza porsi troppe domande (come gli amici di Aksel, ad esempio). Un’adulta in crescita, young adult, nel bene e nel male. Perciò, una volta finito il film, quel “peggiore” nel titolo diventa un virgolettato, una frecciatina ironica alla pratica fin troppo diffusa di etichettare ed emettere giudizi sulle persone, in società o magari davanti allo specchio, quando siamo noi stessi a sentirci i peggiori del mondo.

All’inizio vediamo dunque Julie, già sulla soglia dei trent’anni, cambiare corso di studio e aspirazioni lavorative con la stessa scioltezza con cui cambia partner; ma poi appare sempre più incerta e confusa, per nulla a suo agio in questa apparente casualità in cui sembra svolgersi la sua vita. La sequenza incaricata di questa transizione è quella che riprende l’inquadratura iniziale, nella quale Julie, in abito da sera, fuma su una terrazza dalla quale si vede la città, solcata dal fiume Akerselva. Ora si scopre finalmente che si trova alla presentazione di un nuovo graphic novel di Aksel, un evento pieno di gente elegante e ciarliera nel quale lei si sente del tutto estranea. Annoiata, se ne va e prende a passeggiare per le strade di Oslo, lungo il fiume. Si ferma poi di nuovo e il suo sguardo si perde all’orizzonte. Riprendendo a camminare, si asciuga le lacrime e decide di imbucarsi al party di un matrimonio, che si tiene in una casa davanti alla quale è appena passata. Ed è qui che conosce Eiving, che diventerà la sua seconda relazione importante.

Lo stile di Trier si adegua perfettamente a questo percorso: la vita di Julie fino all’incontro di Aksel è riassunta in dieci minuti, con la stessa cadenza “jazz”, spumeggiante, frammentata e sempre sul limite del paradosso con cui aveva introdotto i due protagonisti del suo film d’esordio. È uno stile funzionale anche a raccontare la generazione di Julie, che vive fra mille distrazioni, incapace di concentrarsi, smarrita in un profluvio di schermi, connessioni e informazioni. E infatti Aksel, più grande di lei di una quindicina d’anni, le confesserà in seguito di rimpiangere il tempo in cui tutto questo non c’era, il tempo dei libri, dei dischi, dei DVD, il tempo cioè del collezionismo e della “tangibilità” della cultura, opposto al nuovo corso, quello del digitale e dello streaming. A partire dalla presa di consapevolezza di Julie, descritta poc’anzi, anche il linguaggio del film si fa più disteso e meditativo, come sospeso. Ma nonostante le camminate o le corse di Julie, la regia non si fa mai pedinamento nel senso neo-neorealista à la Dardenne. Il cinema di Trier, infatti, pur partendo come si è detto dalla verità interiore dei personaggi, non persegue mai l’illusione del realismo. L’atto del raccontare e del filmare sono sempre evidenti, cosa che fa di Trier un autore inequivocabilmente moderno, ma non “modaiolo” (magari a tratti un po’ arty). La conferma di ciò è proprio nella scena cui si accennava prima: Julie si è appena svegliata e Aksel le sta preparando il caffè. Lei accende l’interruttore e Aksel si immobilizza. Il tempo si è fermato. Julie scende in strada e la situazione è la medesima: auto, passanti, tutto è immobile. Inizia a correre e infine raggiunge il bar dove lavora Eivind. I due si baciano e poi escono, percorrendo insieme la città ancora ferma sotto quell’incantesimo. A descriverla con queste parole la scena potrebbe sembrare una furbesca carineria in stile Il favoloso mondo di Amélie (J.P. Jeunet, 2001), cui la distribuzione italiana ha cercato goffamente di accostare il film di Trier. Opere e personaggi che in realtà hanno ben poco da spartire. A questa scena si arriva infatti avendo ben presente il momento di crisi e di fuga interiore (o forse di scelta, ancorché dolorosa) che Julie si trova ad attraversare. Qui il regista sembra chiedere al pubblico di credere in qualcosa di apertamente irreale o surreale, ma di fatto si tratta di un’incursione nel tempo interiore (bergsonianamente inteso) della protagonista: forse la sua corsa in strada per arrivare da Eivind è reale, e accadrà nel pomeriggio, o il giorno dopo (dato che i due poco dopo vanno a vivere insieme), oppure sta accadendo per il momento solo nella sua mente: tanto è vero che poi, tornata a casa, riaccende di nuovo l’interruttore in cucina e Aksel riprende a versarle il caffè. Che importa? Ciò che conta è che all’improvviso si può respirare assieme a Julie quella leggerezza, quell’ebbrezza esaltante di un nuovo inizio, di una rinascita, che solo l’innamoramento riesce a evocare (e poco importa se in futuro si rivelerà soltanto l’ennesima illusione).

A volte ne La persona peggiore del mondo Trier esagera, specie quando tenta di spingersi sul versante della commedia e della caricatura, come nel capitolo dedicato al rapporto fra Eivind e Sumiva, la sua compagna che riscopre in sé le origini Sami (ovvero lapponi, come recita il più diffuso esoetnonimo) e diventa una fervente ecoattivista. Gli riescono meglio le situazioni sfumate, come il primo incontro di Julie e Eivind alla festa, durante il quale il loro reciproco corteggiarsi senza mai “sconfinare” (per evitare di tradire i rispettivi partner) li porta a situazioni talmente spontanee e impreviste da sembrare improvvisate sul set. Quando poi torna a scavare dolorosamente nei personaggi, Trier riesce a dar vita a ritratti di grande autenticità, come pochi altri cineasti nel panorama odierno. Come avviene nei due capitoli finali, in cui la relazione fra Julie e Aksel torna in primo piano e importanti snodi narrativi sembrano costringere per la prima volta Julie ad affrontare davvero la sua vita. Forse è cresciuta, forse non sa ancora bene dove andare. Ma finalmente sa che può farcela con le sue sole forze, senza più appoggiarsi a nessuno. Ed è arrivando a questo perfetto equilibrio fra prostrazione e speranza che Trier prende congedo dai suoi personaggi, lasciando il pubblico a ripercorrere interiormente tutte le proprie personali corse a perdifiato verso destinazioni ignote. Quando non si sa bene dove andare, ma si desidera assolutamente arrivarci.

Info
La persona peggiore del mondo, trailer.

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