Civil War

Civil War

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Ironico e irriverente, Joe Dante aveva messo in scena alla fine degli anni Novanta un’improbabile Second Civil War. Si era riso parecchio, anche perché lo spettro sembrava lontano – come oramai lontano sembrava l’immaginario degli anni Ottanta di Alba rossa o The Day After. Oggi, quasi tre decenni dopo il piccolo cult di Dante, il londinese Alex Garland ci mette di fronte a un’altra Civil War, cruda, spietata, sanguinaria. Non si ride più. Lo scenario non è più così distante, anzi.

God Bless America

Negli Stati Uniti sull’orlo del collasso, attraverso terre desolate e città distrutte dall’esplosione di una guerra civile, un gruppo di reporter intraprende un viaggio in condizioni estreme, mettendo a rischio le proprie vite per raccontare la verità. La più famosa tra i fotografi di guerra, Lee Smith, salva la vita alla giovane e aspirante fotoreporter Jessie durante un attentato suicida a Brooklyn: le due donne, insieme al collega Joel e all’anziano Sammy, mentore di Lee, partono alla volta di Charlottesville, dove si stanno riunendo le forze occidentali del Texas e della California, per poi provare a raggiungere la meta più rischiosa, Washington… [sinossi]
From the mountains to the prairies
To the oceans white with foam
God bless America, my home sweet home
God bless America, my home sweet home…
– Irving Berlin, 1918.

Lucida riflessione sull’informazione, ma anche sullo stato dell’arte dell’audiovisivo e del rapporto con la realtà e la sua riproduzione\manipolazione\invenzione, Civil War intreccia immagini che abbiamo già visto (l’assalto al Campidoglio del 2021) e che potremmo (ri)vedere presto. Immagini che incombono, che evocano il cinema del reale, che evocano spettri. Il collasso dell’informazione e della democrazia in uno spietato film di guerra dal piglio tanto documentaristico quanto spettacolare. Un blockbuster, anche se nella dimensione limitata della A24. Un film d’autore, un autore pienamente contemporaneo, impegnato su tutti i fronti della narrazione e dell’audiovisivo – arriverà anche da noi la sua miniserie Devs?
Civil War è un racconto distopico, l’idea – la fotografia – di un futuro più che possibile. Non un dopodomani dai contorni cyberpunk ma un domani, forse già oggi, che è il logico risultato di una lettura critica del reale, dell’osservazione attenta e consapevole delle traiettorie discendenti dell’Occidente, del Moloch a stelle e strisce. In meno di due ore, Garland riesce a far confluire nel suo film più discorsi e suggestioni: Civil War è la declinazione contemporanea, sia nei contenuti sia nella forma, dello scenario bellico e fantapolitico di Alba rossa (1984) di John Milius, ma è anche l’aggiornamento a tutto tondo di pellicole come Un anno vissuto pericolosamente (1982) di Peter Weir o Salvador (1986) di Oliver Stone, che raccontavano le atrocità della guerra civile attraverso gli occhi, gli scatti e la deontologia dei fotoreporter. Ma non siamo più negli anni Ottanta, che già erano un riflusso di altri ideali: il solco tra lo spirito politico degli anni Settanta – pensiamo alla figura eroica del giornalista d’inchiesta di Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan J. Pakula – è oramai un grand canyon invalicabile e quel che (ci) resta è un duro faccia a faccia con la realtà dei fatti. Già, i fatti.

Scaraventati nel bel mezzo degli scontri, in un caos che è la perfetta cartina tornasole della nostra contemporaneità, privi di un solido contesto, siamo messi di fronte alle prove di un discorso del Presidente degli Stati Uniti. Di quel che resta degli Stati Uniti. In questo incipit, già da qui, i fatti sono piegati alla volontà del dispotico narratore (che sia repubblicano o democratico è oramai irrilevante), alle necessità del momento, al bisogno di polarizzare, estremizzare, far infuocare ulteriormente gli animi. La prima informazione di Civil War non è più informazione, è semplicemente una bugia reiterata all’infinito nel tentativo di renderla, ancora una volta, reale. Di farla percepire come fosse reale. Da qui, lungo un road movie volutamente episodico e frammentario, a tratti straniante (uno dei fili conduttori della multiforme poetica garlandiana), i piani messi su carta e poi sullo schermo da Garland si dipanano e si intrecciano: la rappresentazione della guerra e della guerriglia, degli attentati kamikaze e delle fosse comuni, dei cecchini appostati chissà dove e dei mezzi pesanti che distruggono tutto; la riflessione disillusa sullo sguardo e sui mezzi (anche d’informazione, anche tecnologici) che lo mediano, lo veicolano, alterandolo o rispettandolo; la parabola di Lee Smith, un riflesso non troppo deformato e più che possibile di Lee Miller, con un percorso non dissimile attraverso il disturbo da stress post-traumatico e, se vogliamo, una traiettoria invece inversa sull’essere oggetto di una fotografia o soggetto fotografante; il caos generalizzato e la deflagrazione della società occidentale, priva di appigli politici, etici e culturali e di figure di riferimento – non solo i politici, i colpevoli più facili da indicare, ma le classi più elevate, i mass media.

Morti e sepolti gli ideali politici, tramontata qualsiasi parvenza di possibile rigoroso e strutturato -ismo, assistiamo (anche e soprattutto al di là dello schermo) al trionfo dell’unico sopravvissuto, il populismo. In tal senso, è emblematica la mappatura degli Stati Uniti delineata da Civil War, con questa frammentazione che è lo specchio della polarizzazione delle opinioni, delle posizioni, degli interessi. Oramai sull’orlo di una sconfitta inevitabile, il Presidente dittatoriale è solo la punta dell’iceberg di un fanatismo che permea ogni angolo della nazione. Si veda, raggelante ed emblematico, il personaggio incarnato con la consueta ammirevole efficacia da Jesse Plemons: lo spietato militante ultranazionalista affidato a Plemons è un Eric David Harris cresciuto e pasciuto, uno dei tanti, allevato a odio, armi e farneticazioni à la QAnon. Ed è anche il rovesciamento di un suo altro recente ruolo, quello di Thomas Bruce White in Killers of the Flower Moon – in mezzo a tutto quel sangue, almeno lì, una verità veniva accertata e difesa.

Quasi tre decenni dopo La seconda guerra civile americana, tutto è oramai cambiato, fuori e dentro lo schermo. E se l’attentato a Brooklyn può riecheggiare eventi passati accaduti negli States, il viaggio articolato da Garland ci porta in altri teatri di guerra, un tempo impensabili per gli yankee, non dissimili dai Balcani. Dalla satira di Dante siamo passati al crollo di qualsiasi certezza, alla California e al Texas che combattono per prendere Washington, per radere al suolo l’emblema del potere centrale. Guerriglia urbana, lunghi appostamenti in campagna, guerra vera e propria, carri armati ed elicotteri dalle armi devastanti: è fatto di picchi adrenalinici, di scene madri, Civil War, come le vite ai limiti della schizofrenia di Lee (Kirsten Dunst), Joel (Wagner Moura), Sammy (Stephen McKinley Henderson) e Jessie (Cailee Spaeny). Un film anche profondamente teorico sul dispositivo, sulle nuove potenzialità del mezzo cinematografico, sui nuovi confini del reale, che ci chiede di riflettere ampiamente sull’informazione, anche sul piano generazionale, su quello che abbiamo perso e su quello che resta. Sulla necessità di una presa di posizione ponderata dei singoli e della collettività, di uno sguardo analitico e critico, di una riflessione profonda e onesta. L’unica via di fuga dal mosaico orrorifico e forse distopico messo in scena da Garland, che alterna quadri lunghi a sequenze caotiche quanto realistiche (qui una delle tante differenze estetiche con le affini pellicole del passato, che non avevano tra le mani mezzi agili come la DJI Ronin 4D), è nel ritorno a una consapevolezza etica. Un ritorno al passato. Difficile.

Info
Il trailer di Civil War.

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