Marcello mio

Marcello mio

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Chiara e Marcello: due nomi, un solo cognome. Un progetto ambizioso, quello di Marcello mio, che Christophe Honoré porta a compimento con la sua solita sfacciata leggerezza ed esuberanza, con quel suo gusto rischioso e sempre un po’ al limite per la commistione di toni e generi, con i suoi gesti da prestigiatore nel confondere le carte e le personalità, nel far dialogare i personaggi con altre versioni e altri tempi di sé. In concorso a Cannes 2024 e in sala.

Un’assenza imperdonabile

Chiara è un’attrice, figlia di Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve. Durante un’estate particolarmente tormentata, decide di far rivivere suo padre attraverso se stessa: si veste come lui, parla come lui, respira come lui, con una tale forza che chi le sta intorno comincia a crederci e a chiamarla “Marcello”. [sinossi]

L’instancabile cineasta transalpino (tredici lungometraggi in ventidue anni, senza contare le regie televisive) torna in Concorso al Festival di Cannes 2024 con Marcello mio, un film che è tante cose insieme: un omaggio, in primis, al grande Marcello Mastroianni nel centesimo anniversario della sua nascita; un mockumentary su Chiara Mastroianni e il suo entourage familiare e lavorativo (tutti gli attori interpretano se stessi, o quantomeno una versione possibile di sé); una feérie sull’identità, sul triplo ruolo di donna, attrice, “figlia di”. Chiara e Marcello: due nomi, un solo cognome. Un progetto senza dubbio ambizioso che Christophe Honoré porta a compimento con la sua solita sfacciata leggerezza ed esuberanza, con quel suo gusto rischioso e sempre un po’ al limite per la commistione di toni e generi, con i suoi gesti da prestigiatore nel confondere le carte e le personalità, nel far dialogare i personaggi con altre versioni e altri tempi di sé.

Tu n’est plus là, rien a changé / Le problem est le même, tu sais / Je peux vivre sans toi, oui, mais / ce qui me tue, mon amour, c’est / que je ne peux vivre sans t’aimer.

(Tu non ci sei più, niente è cambiato / il problema è lo stesso, sai / io posso vivere senza di te, sì, ma / quello che mi uccide, amore mio, è / che non posso vivere senza amarti). Sono i versi di una canzone che Catherine Deneuve cantava in Les Bien-Aimées (2011): un altro film che ruotava attorno alla perdita e che vedeva anche lì protagonista Chiara Mastroianni, ormai da quasi tre lustri in proficua collaborazione col regista di Carhaix. Il percorso in cui Honoré la guida, qui, verso il padre Marcello, è per certi versi simile a quello seguito da Alba Rohrwacher verso Monica Vitti in Mi fanno male i capelli (2023, Roberta Torre): rievocare, impersonificandolo, la vita di un attore, attraverso i suoi ruoli, confrontandosi in prima persona con l’impronta che ha lasciato nell’immaginario collettivo, girando attorno ai margini del vuoto incolmabile generato dalla sua assenza imperdonabile (è il commovente verso di una canzone cantata da Catherine Deneuve verso la fine del film). Che qui è portato però al suo limite estremo per ovvi motivi. Ed è infatti un’operazione che rischia ad ogni passo il cattivo gusto, l’effetto scult, e che si può facilmente rifiutare. Honoré però non sembra preoccuparsene, sia perché ha dalla sua un gruppo di interpreti in gran spolvero (sui quali si erge un divertentissimo Fabrice Luchini, meraviglioso attore di scuderia rohmeriana, oltre che ex marito di Catherine Deneuve), sia per l'”aria di famiglia”, e dunque di complicità, di burla affettuosa appena venata di malinconia, che si respira per l’intera durata del film. In definitiva sono proprio a leggerezza e la non seriosità del tono generale a rendere il film accattivante nonostante certi suoi limiti, evidenti anche rispetto ad altri e più compatti film del regista.

Se la prima parte di Marcello mio si svolge a Parigi e indaga i rapporti di Chiara Mastroianni con sua madre Catherine Deneuve e i suoi colleghi (la regista e attrice Nicole Garcia, in uno spassoso autoritratto al vetriolo, e poi gli attori Luchini e Melvil Poupaud), la seconda si sposta a Roma (e infine sul litorale di Formia), seguendo il viaggio di Chiara/Marcello, che, desiderosa di farsi intervistare nei panni del padre “risorto”, va invece a finire in mezzo a un gruppo di concorrenti travestiti da Mastroianni per il programma Rai A ruota libera, con ospite d’onore Stefania Sandrelli, in una sorta di rielaborazione del crepuscolare e magnifico Ginger e Fred (1986) di Fellini. In albergo, poi, si ritrova in compagnia di se stessa bambina: un dispositivo di sdoppiamento che il regista aveva già usato, facendone però il perno centrale della scrittura, in L’hotel degli amori smarriti (Chambre 212, 2019). Appaiono un po’ banali ma comunque divertenti le due scene in cui Chiara entra in una fontana (ma solo la seconda è quella di Trevi), la prima volta nei panni di Anita Ekberg per un set fotografico, la seconda volta in quelli di Marcello. Bisogna però considerare il fatto che il film si muove volutamente per luoghi comuni, intendendo con ciò anche e soprattutto i luoghi dell’immaginario cinematografico. Lo fa per nostalgia, con affetto che appare sincero, per celebrare un rito che non riguarda solo Chiara o Catherine, ma tutti noi. Rimane un po’ labile la traccia narrativa che prende il via dall’incontro notturno su un ponte di Chiara/Marcello con Colin (Hugh Skinner: unico attore che non interpreta se stesso), il soldato inglese di stanza a Parigi. Traccia esplicitamente ricalcata su quella delle Notti bianche viscontiane (1957), con tanto di apparizione di un cane vagabondo, anche se qui virata per forza di cose in chiave di sexual fluidity: una componente, anche questa, ricorrente in Honoré (per fortuna non in modo “modaiolo”) che qui appare però fuori fuoco e poco interessante.

L’ispirazione musical in stile Jacques Demy, che segnò una svolta nella carriera del cineasta a partire dal bellissimo Les chansons d’amour (2007) sembra qui meno aderente al (con)testo e anche le scelte dei brani non originali, solitamente molto ispirate e puntuali, risultano meno incisive (Mi sono innamorato di te, capolavoro di Tenco, qui risulta un po’ gratuita), quando non decisamente stridenti (Chiara che canta Una storia importante Eros Ramazzotti, ospitata sul palco dal suo ex marito Benjamin Biolay). Sì, va bene, ma qual è alla fin fine il motivo del travestimento della protagonista? Forse il fatto che Chiara Mastroianni – il personaggio del film: non lo si creda, per l’appunto, un biopic! – vorrebbe essere “solamente Chiara”, e non figlia di cotanti genitori. Temendo dunque di essere “smascherata”, avverte il bisogno di una maschera eclatante. È perciò quasi una forma di autoterapia d’urto quella che in Marcello mio utilizza travestendosi da suo padre. O meglio, nei personaggi di volta in volta da lui incarnati (Marcello Rubini, Guido Anselmi, Fefè Cefalù, Fred alias Pippo Botticella…). Perché “la personalità è una cosa terribile”, come le dice Luchini riferendosi agli attori che, avendone troppa, hanno meno spazio dentro di sé per “accogliere” tanti personaggi. Ed è in secondo luogo, non lo si può certo escludere, un’occasione per la stessa Chiara/attrice di fare i conti direttamente con una figura tanto amata quanto inevitabilmente ingombrante. Di esorcizzarla, forse, una volta per tutte, nonostante la sua carriera sia oramai ben consolidata. E più che meritatamente, dato che si tratta di un’attrice eccellente. Altro che “figlia di”.

Info
Marcello mio sul sito del Festival di Cannes.

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