Cuore selvaggio

Cuore selvaggio

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Nel bel mezzo della lavorazione di Twin Peaks David Lynch estrae dal cappello Cuore selvaggio, traendolo da un romanzo di Barry Gifford. Un’opera deflagrante, sudata, umorale e priva di freni inibitori, che scava in profondità nelle ossessioni del regista. A Cannes, pur tra mille detrattori (che spesso si sono ravveduti con il passare degli anni), riceverà una meritatissima Palma d’Oro dalle mani di Bernardo Bertolucci. Con Nicolas Cage e Laura Dern, coppia ‘maledetta’ tra le più tenere mai viste sul grande schermo.

Lula & Sailor

Sailor Ripley e Lula Pace Fortune sono amanti, ma si separano dopo che Sailor viene incarcerato in seguito ad un omicidio commesso per legittima difesa. Dopo il suo rilascio, i due fuggono per andare in California, violando apertamente gli obblighi di libertà vigilata. Marietta Fortune, la madre psicopatica di Lula che aveva già inizialmente cercato di fare uccidere Sailor, sguinzaglia un detective privato e tutte le sue conoscenze nella criminalità per trovarli… [sinossi]

Cuore selvaggio è Bernardo Bertolucci, è l’ennesimo sogno del cuore spezzato, è Barry Gifford, è Monty Montgomery, è ovviamente Twin Peaks, spettro onnipresente che si aggira nella notte. È la traduzione in lingua post-perdita della verginità del sogno del ritorno a casa eterno e impossibile/impensabile de Il mago di Oz. Cuore selvaggio è la Palma d’Oro dello scandalo, quella contro cui tanto tuonò che piovve la ridda di insulti vomitati da una critica incapace – anche per mancanza di volontà – di comprendere il senso non solo dell’opera di Lynch, e del suo dispiegarsi libero e coerente, ma anche della scelta di una giuria di assegnare a questa scheggia d’utopia in strada (non ancora) perduta verso Hollywood il massimo riconoscimento del festival più chiacchierato e discusso d’Europa, e dunque del mondo. Si torna sempre lì, a quelle parole che qualche mese fa Enrico Ghezzi ha sussurrato durante un’intervista: “Bernardo è il più grande regista di giurie che sia mai esistito”. Una qualità che non sta tanto nell’aver operato scelte, nel corso di meno di dieci anni, prima a Venezia e poi a Cannes, che hanno assegnato premi a due titoli amati, studiati, forse anche intimamente “cinefili”, quali Prenom Carmen (Leone d’Oro del 1983) e per l’appunto Cuore selvaggio; sarebbe troppo facile, e stolido. La “grandezza” del presidente di giuria Bertolucci risiede nella sua capacità di comprendere il proprio tempo, e di assegnare a questo, e alle sue ramificate urgenze, il senso politico di un premio. Non una “politica del tempo”, come quella che ha visto premiati nel corso degli anni titoli che rivendicavano la loro appartenenza al proprio tempo, ma semmai una “politica del senso”, e del segno. Una politica d’immagine. Prenom Carmen era il risorgere già morto della nouvelle vague, la sua dimostrazione di morte e rinascita, morte attraverso la rinascita e rinascita che non poteva che adagiarsi nella morte, e nelle morti. Era il premio a un tempo, al suo saper essere scandalo anche quando sembrava finito, superato, rimosso. Era il premio a Godard, com’è ovvio, ma anche all’universo che aveva sfiorato e nel quale si era mosso Godard. Un premio al tempo del cinema, al suo essere infinito anche quando è finito, quando la carne invecchia, quando l’umano incanutisce, quando ci si specchia e non ci si rinosce più (come anche Cooper/BOB nel finale di Twin Peaks, o Dougie/Cooper in una delle sequenze di questa nuova stagione o serie che dir si voglia).
Cuore selvaggio fu invece il premio a una rivoluzione. Sotterranea, non sistemica, non evidente, non pulsante negli occhi della maggior parte del pubblico. Ma pur sempre una rivoluzione. Cuore selvaggio fu il premio a un bombardamento ottico; non ottenuto attraverso i giochi rotanti di grifiana memoria, né con gli effetti speciali che già dominavano il box office d’oltreoceano. No. La rivoluzione di Cuore selvaggio non rovesciò alcunché, né avrebbe mai potuto. Ma era lì per chi voleva ascoltarne le ragioni. Una rivoluzione che aveva già mosso i primi passi dodici mesi prima, con il trionfo (altrettanto a sorpresa) di Steven Soderbergh con l’esordio Sesso, bugie e videotape, e che avrebbe trovato consacrazione nei primi anni dell’ultimo decennio del millennio, quando a vincere saranno prima i fratelli Coen con Barton Fink, e quindi Quentin Tarantino con Pulp Fiction. La rivoluzione di una Hollywood non necessariamente nuova, ma in grado di raccontarsi senza temere le proprie balbuzie, i propri umori. Una Hollywood in grado di scardinare il concetto di classico, e di legarlo alla pastoia cui è avvinto anche il sottoproletariato controculturale (o contro la cultura, anche).

La vittoria francese di Lynch fu il grido di ritrovata libertà di una generazione che stava muovendosi al di fuori dell’industria, nipoti ancora non riconosciuti e blasfemi ed eterodossi della New Hollywood. Blasfemo apparve a molti anche Cuore selvaggio, che si apre sulla testa di un cerino che infiamma i titoli di testa. Fuoco, cammina con me. Quel fuoco che è l’elemento d’espansione, l’unico a possedere vita propria; quel fuoco che è l’imitazione della vita, ma anche il simbolo di un furore impossibile da raffreddare, o addirittura frenare. La prima sequenza di Cuore selvaggio, ambientata in un grande salone a Cape Fear (“da qualche parte nei pressi del confine tra North e South Carolina”), rappresenta al di là di ogni possibile equivoco il senso del film, e il mood che lo dominerà: mentre Lula e Sailor scendono i gradini della scalinata vengono raggiunti da un uomo che è stato pagato dalla madre della ragazza per uccidere Sailor. Ma quando questi estrae il suo coltello a serramanico, la belluina forza bruta di Sailor cala su di lui; non cerca solo di salvarsi la vita, ma si accanisce sull’avversario sfondandogli il cranio. Lynch non si ritrae per un secondo con lo sguardo dallo scontro. Come il giovane Jeffrey Beaumont protagonista di Velluto blu, ha anche lui bisogno di vedere, di spiare, al sicuro dietro la macchina da presa/armadio; ma ha anche bisogno di scontrarsi a sua volta con quella violenza che alberga da sempre nel suo cinema, e che sta raggiungendo la propria maturità.
Tutto il rimosso di Velluto blu, le apparizioni e sparizioni nella notte, i cadaveri già lì e ancora in piedi, si materializza sullo schermo: il sangue schizza sugli scalini, la testa del killer a pagamento viene sbattuta contro ogni spigolo, Lynch sofferma l’occhio della camera sul cranio sfondato, con pezzi di cervello che fuoriescono. Intorno ai due protagonisti – l’assassino assassinato e la vittima che si fa carnefice – il coro muto accompagnato dalle urla animalesche di Lula. Tutto è sovraeccitato, sudato come la fronte di Sailor mentre punta il dito contro la madre della sua fidanzata. La cattiva per eccellenza. Escluso BOB, che è però forma umana solo all’apparenza, mai nessun villain nel cinema di Lynch ha albergato in sé il senso del male quanto Marietta Fortune, interpretata da Diane Ladd (madre di Laura Dern anche nella vita reale). Neanche Dennis Hopper, figlio paranoide di un disturbo ossessivo che non trova requie; ancor meno i personaggi doppi che troveranno sede di lì a pochi anni, con Strade perdute e Mulholland Drive. È Marietta Fortune, più ancora della coppia di giovani innamorati, il centro pulsante di Cuore selvaggio: imbastardita, grassa di potere e di odio, selvatica e alla ricerca di quella “purezza” che è concessa solo alla figlia. Marietta Fortune è, nello schema che vede Cuore selvaggio riflesso distorcente de Il mago di Oz, suo parallelo/opposto, la Malvagia strega dell’Ovest, ma è anche la matrigna di Biancaneve. È la donna che non accetta l’incedere del tempo, e non sa comprendere ciò che è estraneo ai suoi veti, e va dunque combattuto.

Nell’isterica messa in scena lynchiana, che tutto si permette, Diane Ladd è il male incarnato, il maligno contro cui i due protagonisti devono combattere per raggiungere la loro felicità. Il male, una volta di più, si annida nelle radici, è alla base del concetto stesso di famiglia, è il piedistallo che sorregge lo strano mondo che si muove al di sopra e che è marcio fin dalla sua nascita. In questo universo malsano, abitato da criminali di varia risma, mefistofelici spettri d’umanità, si articola il road movie alla maniera di Lynch – ribaltato, quasi come interpositivo, diverrà il lento incedere a cavallo di un trattore di Alvin Straight in Una storia vera –, che non è viaggio attraverso un luogo, ma all’interno di un proprio spazio personale; maturazione non per accumulo di esperienze, come vorrebbe il bildungsroman classico, ma per stessa macerazione del tempo, e della sua geometria. La formazione è lo spazio di un racconto. Così come questo si dispiega di fronte agli occhi degli spettatori, grondante di tutti i suoi umori più deteriori (all’apparenza), allo stesso modo trova naturale forza nel rapporto tra Lula e Sailor, che agiscono il loro essere insieme in due modalità: quella sessuale, e quella dialettica. Lula e Sailor si raccontano l’un l’altra, e in questa dimensione scavano nelle rispettive intimità, le violano, le sverginano in un modo che renderà impossibile l’idea di un ritorno a casa, altro mito di Oz svilito e ribaltato. La casa è la costruzione in fieri di un rapporto, ci un sentimento che è l’unico a resistere all’orda di violenza e sopraffazione che avvolge i due ragazzi cercando di soffocarli.
In un mondo di cattivi maestri, come il sardonico e ghignante Bobby Peru affidato alle cure di un esaltante Willem Dafoe, Lula e Sailor devono imparare sui rispettivi corpi i metodi per sopravvivere, e uscire insieme dalla pozza di sangue nella quale sono stati catapultati. Un mondo simile non può essere edulcorato agli occhi degli spettatori, sarebbe una forma di reazionaria presa di distanza intellettuale che Lynch non ha mai sposato, e che non fa parte dei suoi dogmi. “Drink Full and Descend”, declamerà quasi trenta anni dopo dal piccolo schermo il woodsman di Twin Peaks, ma il concetto non è certo nuovo. Per scoprire il male, e dunque sopravvivere al male, l’unico modo è immergervisi fino al collo, andare in apnea, sguazzare nel male. Discendere. In un percorso piano, com’è inevitabilmente quello di un road-movie, tanto più se nelle assolate e polverose strade del sud est degli Stati Uniti, Lynch propone un tragitto di ascensione e caduta, che è di ogni essere umano e la cui instabilità rappresenta meglio di ogni altra metafora l’urgenza di un posizionamento tra il bene e il male. Se sceglie di mettere in scena questo viaggio sfoderando i cuscini ricamati in cui era stato rinchiuso il kitsch ed elevando il “basso” a punto più alto di un immaginario post-tutto ma pregno di ogni singola scoria del popolare, è perché solo le protuberanze escrementizie (umori, languori, sudori) dell’umano raccontano ancora la verità di un umano sempre più plastificato, inodore e insapore.

Questa urgenza politica – politica dello sguardo perché attraverso lo sguardo e nello sguardo – è la folgorazione ultima del decennio reaganiano che viene ultimato dalla reggenza di Bush padre: nella letteratura noir, come quella di Barry Gifford, Lynch ritrova una realtà che con troppa facilità è stata svenduta al mercato delle pulci dell’arte. Non è un caso che proprio a quattro mani con Gifford il regista porterà a termine lo script di Strade perdute, così come quello di due dei tre segmenti di cui si compone l’oramai dimenticato Hotel Room, film televisivo commissionato a Lynch dalla HBO nel 1993. Non è un caso neanche che alle spalle del progetto Cuore selvaggio, prima ancora che Lynch irrompa sulla scena, ci sia già il nome di Monty Montgomery, che gli affezionati cultori del regista di Missoula ricorderanno inguainato nei panni del cowboy in Mulholland Drive, a suggerire al regista del film nel film “Now, you will see me one more time if you do good. You will see me two more times if you do bad. Good night”. Era stato Montgomery, produttore ma anche co-regista nel 1982 dell’esordio al lungometraggio di Kathryn Bigelow The Loveless, ad acquisire i diritti di alcuni romanzi di Gifford per poi sottoporli a Lynch, che avrebbe dovuto figurare da principio solo come produttore. Anche Montgomery lavorerà a Hotel Room, a sottolineare una fase nel percorso di Lynch, con una sua compiutezza e una sua unicità, pur intessuta in un percorso più vasto, e in ogni caso coerente.
Se nell’immediatamente precedente Industrial Symphony No. 1: The Dream of the Broken Hearted, installazione tra teatro e videoarte ispirata dalle nuvole di ipotesi lasciate nell’aria da Twin Peaks, Lynch metteva in scena il sogno/incubo e la sua difficile materializzazione, in Cuore selvaggio la materia non si fa solo ardente, come suggerito dall’onnipresente fuoco, ma tangibile. Il film è pervaso dai fiotti di sangue, da animali, dal vomito. Quando Sherilyn Fenn, prima di spirare a seguito di un terribile incidente stradale incrociato da Lula e Sailor, si passa una mano sulla testa, Lynch fa sentire al pubblico l’orribile rumore delle dita che scavano nel cervello a cielo aperto, dopo l’apertura del cranio. C’è la carne, in Cuore selvaggio, e la carne è viva, sanguinolenta, piena di malformità – i denti di Bobby Peru, la gamba metallica di Juana, la seviziatrice al soldo di Perdita Durango –, terribile come solo la natura può essere. In questo senso già anticipatore dei fasti dello splendido – e ancor più fischiato – Fuoco cammina con me, Cuore selvaggio prende gli schemi di Twin Peaks, la dannazione giovanile, l’urgenza di vivere, il conflitto generazionale e con il concetto di “maturità”, la lotta tra elementi positivi e negativi, ed estraendoli dal cono protettivo della televisione li fa esplodere in tutta la loro prepotente volgarità.
Come i gridolini di Lula e le intemperanze di Sailor, Lynch firma un inno libertario, strafottente eppure come sempre dolcissimo, pronto a struggersi di fronte a due giovani adulti che si baciano appassionati in un ingorgo stradale, dopo che lui, ruvido ma innocente, ha intonato una serenata per la sua amata. Dopotutto è lo stesso Sailor, a terra dopo essere stato pestato, ad ammettere a Glinda, la strega buona apparsa in suo soccorso (e interpretata da Sheryl Lee, che in quei mesi era Laura Palmer, il cadavere più eccellente del mondo dell’audiovisivo) “But I’m wild at heart”. Glinda gli risponde “If you’re truly wild at heart, you’ll fight for your dreams. Don’t turn away from love, Sailor”. Non bisogna allontanarsi dall’amore, unica regola eternamente valida per Lynch. Una regola adolescente, forse, ma che vive perché al suo interno ha saputo accogliere tutto il nero della notte, e l’uggia che trascina con sé. Sailor salta sul cofano della decappottabile di Lula, le tende la mano, lei lo accoglie e lo abbraccia. Love me tender, love me sweet, never let me go. You have made my life complete, and I love you so. Finiscono gli anni Ottanta, il bianco e nero di The Elephant Man, tragico mélo ottocentesco che mestamente salutava il positivismo scientifico, dissolve in una bolla di colori ardenti, bruciati, vivi. John Merrick, escluso dal mondo per la sua deformità, ha scelto di dormire; il suo sogno “di cose oscure e inquietanti” (come Lynch descriveva Eraserhead) si è illuminato al sole calante dell’idillio di due innamorati. E brilla.

Info
Il trailer di Cuore selvaggio.
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