Parkland

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Peter Landesman porta in concorso a Venezia 70 Parkland, un film in cui cerca di ricostruire l’omicidio Kennedy. E lo fa con una disdicevole tendenza alla spettacolarizzazione.

Ventidue novembre 1963, Dallas, Texas. Il presidente americano John F. Kennedy viene gravemente ferito con dei colpi di arma da fuoco. In ospedale i soccorsi sono inutili. Il film mostra una serie di personaggi che si trovarono a condividere quel momento, a partire da Abraham Zapruder, l’autore del filmato amatoriale poi entrato nella storia… [sinossi]

Tra i drammatici e violenti eventi che hanno segnato la storia degli Stati Uniti, l’assassinio di J.F.K. riveste un ruolo di primaria importanza nella memoria collettiva, anche per il suo non secondario aspetto mediatico: le riprese amatoriali dell’omicidio, ad opera del sarto Abraham Zapruder, fecero il giro del mondo e, sostanzialmente, furono l’ufficiale atto d’inizio della contemporanea società dello spettacolo, dell’esplosione del visibile.
Con Parkland, in concorso a Venezia, l’esordiente Peter Landesman affronta questo snodo nevralgico della storia del Novecento senza alcuna consapevolezza cinematografica, prigioniero di un immorale sensazionalismo. Del resto, la sua biografia parla chiaro: giornalista d’inchiesta e corrispondente di guerra, i contatti di Landesman con il cinema sembrano rari, sporadici e, soprattutto, poco ragionati.
Non altrimenti, infatti, si può spiegare l’assoluta incoscienza con cui in Parkland si mischia il materiale di repertorio ad opera di Zapruder con le nuove riprese dirette da Landesman, come se l’intento ultimo dell’operazione fosse di rendere tutto quanto visibile, quasi si stesse raccontando in diretta, per una sorta di presentificazione della Storia, la morte di Kennedy.

Vengono alla mente le riattualizzazioni che sono sempre state pratica comune del sistema audiovisivo statunitense: la politica del remake, il riversamento in 3D di film del più o meno recente passato, la colorazione di capolavori in bianco e nero. Sono forme e modalità assolutamente diverse, su cui si vuole tutt’altro che pontificare, ma che sono rivelatrici di una pratica e di una cultura per l’appunto presentificante (caratterista del resto legata alla storia relativamente giovane di questo Paese). Questo retaggio culturale prende tra le mani di Landesman una forma addirittura schizofrenica, per una sorta di malinteso tra cinema e reportage: Parkland concettualmente è in effetti un film quasi d’inchiesta, ma visiviamente e ritmicamente si rifà allo stereotipo dell’opera cinematografica di medio livello (e la stessa macchina a mano si muove in modo tutt’altro che frenetico).

Assistere all’omicidio Kennedy come se si svolgesse sotto i nostri occhi in quel preciso momento e cercare di mostrare tutto il mostrabile, a partire dal ricovero d’emergenza in ospedale del Presidente, ci convince che l’idea malsana di Landesman sia stata quella di arricchire il filmato di Zapruder, come immaginando che se una evento del genere accadesse oggi ci sarebbero tante più videocamere pronte a riprenderlo e si potrebbe fare un montaggio articolato con tanti differenti prospettive. Ma, in fin dei conti, non serve riuscire ad avere la possibilità di vedere tutto se non si sa guardare.
Ciò detto, va aggiunto che Parkland non riesce neppure ad essere avvincente e che vi sono nel film delle figurine monodimensionali travestite da personaggi, a partire dallo stesso Zapruder interpretato da un malcapitato Giamatti, costretto a saltellare, strillare e piangere come una checca isterica.
Siamo dunque di fronte ad uno dei peggiori film in competizione a questa settantesima edizione della Mostra, in un concorso tra l’altro molto discutibile e poco entusiasmante. Le opere migliori, a parte il James Franco di Child of God, sembrano infatti celarsi nelle sezioni collaterali del festival.

Info
Il sito ufficiale di Parkland.
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