L’amante dell’astronauta

L’amante dell’astronauta

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L’amante dell’astronauta è il decimo lungometraggio in solitaria per l’argentino Marco Berger, ma il primo a trovare distribuzione in Italia. Un bignami del cinema del quarantasettenne di Buenos Aires, tra innamoramenti, estati fuggevoli, e una profonda passione per la vita.

Le regole dell’attrazione

Pedro, apertamente gay, e Maxi, felicemente etero e single, durante un’estate al mare iniziano un’amicizia affettuosa e giocano a fare i fidanzati. I loro amici e anche la ex di Maxi non capiscono cosa stia accadendo, neanche gli stessi ragazzi sono coscienti del gioco che hanno avviato. Sarà l’inizio di una passione o un grande amore? [sinossi]

Al decimo lungometraggio (tredici, se si contano le co-regie di Cinco e del dittico Tensión sexual, quest’ultimo con Marcelo Mónaco) in quindici anni di attività il quarantasettenne argentino Marco Berger viene per la prima volta distribuito in Italia: ecco che L’amante dell’astronauta, titolo altrimenti non tra i più indimenticabili della carriera del regista, acquista invece un valore peculiare. Appare utopico immaginare che il sistema cinematografico italiano approfitti dell’occasione per riscoprire titoli quali Ausente (2011), Mariposa (2015), Taekwondo (2016), o Los agitadores (2022), ma almeno la scoperta di Los amantes astronautas – l’originale è assai più pertinente al senso del film, come si cercherà di sottolineare più avanti nel corso della recensione – può permettere finalmente di allargare la visuale su un cineasta estremamente peculiare, che ha fatto sua una delle mille lezioni di Éric Rohmer e la declina in direzione di una speculazione sull’amore omosessuale, sulla pulsione, sul desiderio del corpo e della simbiosi con l’altro, anche sotto il profilo intellettuale. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il cinema di Berger non troverà molte sorprese durante la visione de L’amante dell’astronauta: c’è la consueta situazione di partenza, con uno dei due personaggi che desidera l’altro senza che questo ne sia nemmeno consapevole, l’apparente confusione tra “abitudine” eterosessuale e nuove e inattese smanie, il tutto costruito attraverso il ricorso a dialoghi incessanti, in una dialettica che è la prima base per costruire la relazione, e che si articola attraverso l’arte, la cultura, la citazione cinefila perfino palesata. Ecco dunque la Merda d’artista di Piero Manzoni, ecco Edward mani di forbice, e poi ancora Stanley Kubrick, Lo squalo, Una vita al massimo, e chi più ne ha più ne metta.

Sono il carburante nobile del dialogo che isola completamente Pedro e Maxi dal resto della compagnia che si ritrova d’estate nella casa del cugino di Pedro Lucas, nella località marittima di Villa Gesell, quattrocento chilometri a sud-est di Buenos Aires sul Mar Argentino. Pedro è tornato in patria dalla Spagna, dove si è trasferito a lavorare, ed è felice di rincontrare Maxi, del quale è infatuato sin dai tempi del liceo: quest’ultimo però è etero, ed è anche profondamente amareggiato dal tradimento dell’amata Sabrina, cui vorrebbe rendere la pariglia fingendosi in maniera aperta gay e innamorato di Pedro. Non ci vuole molto a intuire come andranno davvero le cose, e dopotutto Berger non ha nessuna intenzione di tenere sulle spine i propri spettatori: il suo approccio registico è minimale, gentile, ironico e partecipe, e dominato da una gran voglia di vivere una realtà che è però sempre quotidiana, credibile, veritiera. Ecco che la bizzarria del titolo, che fa riferimento a uno dei dialoghi tra i protagonisti – in cui si passano in rassegna i mille e più modi con cui sono apostrofati gli omosessuali in Argentina: curioso come la sequenza possa rimandare, alla memoria cinefila, il passaggio di Ultimo tango a Parigi in cui Marlon Brando sciorina alle orecchie di Maria Schneider i possibili sinonimi di “pene” –, serve anche a spezzare con un racconto visivo che è invece diretto, lineare, semplice senza risultare semplicistico.

E se è vero che il ricorso a una logorrea espressiva pressoché ininterrotta di quando in quando si fa fin troppo presente, è altrettanto vero che quest’estate instabile e dolcissima raccontata con uno sguardo così solidale riesce in ogni caso a colpire in profondità, richiamando ovviamente l’ideale iperuranico rohmeriano ma passando anche per alcune delle sue declinazioni successive, a partire dal Richard Linklater della trilogia dei “Before…”. Eliminando la contemporaneità – a casa di Lucas non prende la rete internet, e quindi la tecnologia torna indietro nel tempo – Berger rintraccia la naturalezza dell’istinto sessuale e sentimentale (l’uno mai disconnesso dall’altro) e lo mette in scena con gioiosa partecipazione, aderendo in modo entusiastico alle emozioni di Pedro e Maxi, i cui personaggi sono arricchiti dalle belle interpretazioni di Javier Orán e Lautaro Bettoni. Senza la brillantezza espositiva del succitato Linklater o la furibonda dichiarazione di vita/eros di Abdellatif Kechiche, L’amante dell’astronauta sa però come smarcarsi dalle pastoie dell’ovvio pur muovendosi su un territorio il cui sentiero è già abbondantemente tracciato. E nel nitore e nella limpidezza estetica e narrativa del finale si può anche rintracciare la vis poetica più ispirata di Marco Berger, che qua e là nel corso del racconto era venuta meno.

Info
Il trailer de L’amante dell’astronauta.

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